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La Stampa Rassegna Stampa
28.08.2022 Cinema e libertà
Commento di Fabrizio Accatino

Testata: La Stampa
Data: 28 agosto 2022
Pagina: 28
Autore: Fabrizio Accatino
Titolo: «Nel nome della libertà»
Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 28/08/2022, a pag.28 con il titolo "Nel nome della libertà" l'analisi di Fabrizio Accatino.

Biennale Cinema 2022 | Cineasti sotto attacco: fare il punto, agire. Alla  79. Mostra due iniziative di solidarietà

La speranza è che la tavola rotonda e il flash mob organizzati dalla Mostra del Cinema di Venezia - « la più forte dimostrazione della massima solidarietà del mondo del cinema» - riescano a incrinare almeno un po' il silenzio dell'Occidente sulle persecuzioni subite dai registi iraniani. Il panel si intitola «Cineasti sotto attacco: fare il punto, agire», il flash-mob si terrà prima dell'inizio del film in concorso Kehrs nist (No Bears) di Jafar Panahi, e il regista non potrà essere presente alla Mostra in quanto nuovamente privato della libertà personale nel luglio scorso per aver partecipato a una manifestazione per l'arresto di altri due registi, Mohammad Rasoulof, Mostafa Aleahmad. Ma è solo l'ultimo capitolo di un braccio di ferro tra cinema e regime che nella Repubblica Islamica dell'Iran si trascina da sempre. Un conflitto con i contorni di una guerra civile, che deprime una delle cinematografie più antiche del Medio Oriente, nata appena cinque anni dopo l'esordio dei Lumière. Ovunque i regimi totalitari considerano la settima arte a un tempo un formidabile canale di propaganda e un pericoloso strumento di sovversione, mai però queste posizioni si sono radicalizzate in maniera tanto feroce come in Iran. Si può dire che cinema persiano e censura siano nati insieme e che abbiano attraversato il secolo avvinghiati in un abbraccio soffocante. Fin dagli anni Venti del Novecento a Teheran sono prassi i controlli e le sanzioni nei confronti degli esercenti sorpresi a proiettare film filo-occidentali, caratterizzati da riferimenti sessuali o più in generale contrari alla morale religiosa islamica. Sotto la dinastia Pahlavi la censura si fa istituzione, con la creazione del Komisiyum-e nemayesh (la Commissione dello Spettacolo) e della famigerata Savak, la polizia segreta dello scià, infiltrata fin da subito nei gangli dell'industria cinematografica. Ciò che l'autorità vuole evitare è che le pellicole veicolino critiche agli usi e ai costumi del Paese, rappresentandone sul grande schermo le contraddizioni politiche e sociali. La situazione riesce persino a peggiorare dopo la rivoluzione khomeinista del 1979, che porta a un ulteriore giro di vite. Viene istituito il Fajr International Film Festival, da sempre filo-governativo al punto da essere collocato intorno all'11 febbraio, ricorrenza della vittoria della Rivoluzione Islamica. Intanto, una commissione statale costringe alla chiusura 180 cinema e impone il rastrellamento dei magazzini di tutti i produttori e distributori del Paese. 500 pellicole straniere e 2.000 film iraniani finiscono al rogo, molti di essi perduti per sempre. La storia audiovisiva di un Paese andata in fiamme, un olocausto culturale degno di Fahrenheit 451. Alla luce di queste premesse, risulta comprensibile il motivo per cui negli anni siano stati prodotti così tanti film di bambini, divenuti il simbolo della nouvelle vague iraniana. Narrare storie d'infanzia ha costituito per i registi un sistema pratico per schivare le forbici di Stato (o peggio la detenzione), senza rinunciare a raccontare in filigrana l'arretratezza materiale e culturale del Paese. Così sono nati - tra i tanti - i capolavori di autori come Abbas Kiarostami (Il viaggiatore, Dov'è la casa del mio amico?, Compiti a casa) e Majid Majidi (I ragazzi del paradiso, Baran, Figli del sole). Chi invece si è ostinato a dedicarsi ai temi politici, come Moshen Makhmalbaf, è dovuto scappare dall'Iran portandosi dietro clandestinamente le bobine dei film. Soltanto dagli anni Duemila ha iniziato a mettersi in luce una generazione di registi resistenti, determinati a proporre la propria poetica a costo del carcere o dell'esilio. È il caso di Marjane Satrapi e del suo splendido fumetto/film Persepolis. O di Jafar Panahi che, nonostante il divieto di fare cinema impostogli dal governo, è riuscito a completare il documentario This is Not a Film e a portarlo al Festival di Cannes in un hard disk nascosto in una torta. O dell'attrice Golshifteh Farahani, costretta a scappare dal suo Paese perché colpevole di aver recitato per due registi «infedeli» come Ridley Scott e Jim Jarmusch. O ancora il caso di Hossein Rajabian, che dopo l'opera prima The Upside-down Triangle - in cui sosteneva con forza il diritto delle donne iraniane al divorzio - è stato arrestato e si è reso protagonista di un tragico sciopero della fame che ha finito per minargli il fisico. Se i grandi autori possono provare a sfidare i pasdaran (in virtù della visibilità e dei premi internazionali), dietro di loro non riesce a sbocciare una nuova leva di registi indipendenti. Di questo sono responsabili anche le sanzioni commerciali messe in atto dagli Stati Uniti. In vigore dalla seconda metà degli anni Novanta (attenuate soltanto nel quadriennio 2015/'18 durante la presidenza del riformista Khatami), le restrizioni impediscono l'esportazione verso l'Iran di prodotti, servizi e tecnologia. Oltre all'economia del Paese, quelle misure hanno messo in ginocchio anche il cinema, riducendo di circa un terzo il già esiguo numero di film prodotti. L'inflazione galoppante ha portato a una progressiva contrazione dei budget, il blocco delle transazioni finanziarie internazionali ha originato l'impossibilità pratica di vendere i film all'estero. Una limitazione che complica il rientro delle spese di produzione (e in ogni caso rende impossibile un ricavo), aggirabile solo in parte con la creazione di conti correnti stranieri. L'immagine plastica della situazione del cinema iraniano contemporaneo è Asghar Farh?di - l'unico regista persiano ad aver vinto l'Oscar, e per due volte - impossibilitato a ritirare la statuetta nel 2017 a causa del «Trump travel ban», che impediva l'ingresso negli Stati Uniti ai cittadini mediorientali. Revocato in fretta e furia l'ordine esecutivo dal presidente americano, il regista si è comunque rifiutato di essere presente alla cerimonia. Un gesto che è anche servito a ricordare come la questione dei diritti civili violati non riguardi soltanto Naval'nyj e Assange ma interi Paesi, in cui agli artisti viene negata la possibilità di fare cultura e di dare corpo su uno schermo cinematografico alla propria visione del mondo.

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