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La Stampa Rassegna Stampa
14.08.2020 L'accordo Emirati-Israele sui giornali di oggi
Il commento in stile Manifesto di Stefano Stefanini sulla Stampa

Testata: La Stampa
Data: 14 agosto 2020
Pagina: 21
Autore: Stefano Stefanini
Titolo: «La vittoria diplomatica di Donald Trump»

Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 14/08/2020, a pag. 21, con il titolo "La vittoria diplomatica di Donald Trump", il commento di Stefano Stefanini.

Il pezzo di Stefanini sarebbe potuto uscire sul Manifesto, tanto il suo tono è ostile verso Israele. Stefanini riconosce la grande novità dell'accordo, ma preferisce mantenersi generico e ambiguo sulle conseguenze, e rifiuta di attribuire meriti ai protagonisti, da Netanyahu a Trump alle leadership dei Paesi sunniti pragmatici.

Sono molti i quotidiani italiani che riportano e commentano la notizia, mettendola però, come fa Stefanini, in relazione con il "congelamento" della possibile annessioni di parti dei territori contesi da parte israeliana. La questione dei territori contesi e l'accordo con gli Emirati - che va spiegato nell'ottica del comune interesse di Israele e Paesi sunniti di contenere l'Iran - sono due dossier diversi con poco in comune. Vengono invece uniti i due discorsi da Avvenire (che comunque definisce "storico" l'accordo), Corriere della Sera ("inizia una nuova era"), Foglio ("svolta pragmatica"), Giornale ("storica pace"), Fatto Quotidiano e Repubblica ("accordo storico").

Il Manifesto invece propone il solito commento unidirezionale contro Israele, al punto da mettere tra virgolette - quindi in dubbio - la stessa parola "pace", riferita all'accordo Emirati-Israele.

L'Osservatore Romano, infine, è l'unico giornale del tutto assente oggi. Una assenza eloquente, visto che OR è di solito in prima linea quando si tratta di dare spazio alle voci contro lo Stato ebraico.

Ecco l'articolo:

Immagine correlata
Stefano Stefanini

In historic declaration, Israel and United Arab Emirates agree to ...
Benjamin Netanyahu

Israele rinuncia all'annessione di "Giudea e Samaria"; il condominio prevalentemente arabo-sunnita di cui fa geograficamente parte gli riconosce finalmente il titolo di proprietà; il denigrato piano Trump-Kushner sblocca inopinatamente l'incancrenita questione palestinese. Forse. Questi sono gli orizzonti dischiusi dall'annuncio dell'Ufficio Ovale della Casa Bianca. Tutti legati al tenue filo dei seguiti che vi daranno i protagonisti — il Medio Oriente è il cimitero dei piani di pace. Ma il potenziale dell'accordo fra Israele e Emirati Arabi Uniti non è inferiore a quello degli accordi di Oslo del 1995. Oslo sdoganò internazionalmente Yasser Arafat e l'Olp; l'accordo fra Gerusalemme e Abu Dhabi, annunciato da Washington, sdogana ufficialmente Israele nel mondo arabo. Segna la fine del dogma della non esistenza di Israele per la grande maggioranza dei paesi arabi. Egitto e Giordania erano importanti eccezioni dettate dalla vicinanza, oltre che dal buon senso del Cairo e di Amman. Nel Golfo, sempre più il baricentro regionale di potere e influenza, il riconoscimento di Gerusalemme era ancora un tabù ufficiale. Di fatto, il diaframma era caduto da tempo, con gli Emirati da battistrada. Ben altro è però stabilimento di relazioni diplomatiche. Per incassarlo Israele paga un prezzo non indifferente, specie per l'attuale governo. Fermare l'annessione del West Bank significa mettersi contro buona parte dell'elettorato — coloni, ortodossi, nazionalisti — che ha sempre votato Netanyahu. Significa riaprire seriamente la prospettiva dei due Stati —tutta evidentemente da negoziare. L'annuncio fa molti scontenti sia israeliani che palestinesi del tanto peggio tanto meglio (Hamas). Gli Emirati, che già da tempo collaboravano sottobanco con Gerusalemme, puntano a passare ad una cooperazione bilaterale a tutto campo nei settori più avanzati dove Abu Dhabi non nasconde le proprie ambizioni (nucleare, Missione su Marte). È altamente improbabile che Abu Dhabi si sia spinto a un passo così importante - e, per le opinioni pubbliche arabe, plateale — senza una luce verde di Riad. L'emiratino Mohammed bin Zayed si muove solitamente in tandem con il saudita Mohammed bin Sultan. Le occasionali dissonanze fra MbZ e MbS riflettono più un gioco delle parti che visioni diverse. Eau fa da fregata, il Regno saudita da portaerei, con navigazione più cauta e lenta. Gli altri Stati del Golfo, ciascuno con proprie modalità e tempi, finiscono col seguirne le piste. Con la partita iniziata ieri Israele ha messo sul piatto una relativamente modesta concessione territoriale in cambio dell'alleanza col Golfo sunnita. L'alleanza esisteva già di fatto. Adesso è cementata. In funzione anti-iraniana, e contro la galassia sostenuta da Teheran: Assad, Hezbollah libanesi, Hamas di Gaza. C'è anche un'indiretta avvisaglia alla Turchia neo-ottomana di Erdogan che si scontra per procura con gli Emirati in Libia. Vittoria diplomatica di Donald Trump? Senza dubbio, perché l'alleanza fra Gerusalemme e il fronte sunnita è un disegno che ha perseguito coerentemente dall'inizio della presidenza. Adesso una cartuccia che il Presidente si giocherà in chiave elettorale. Rientra anche nella visione di un'America che si ritira dalla sovraesposizione, in questo caso in Medio Oriente, forzando gli alleati a fare di più da soli per la propria sicurezza. Israele, pur nella forte come non mai dell'empatia Trump-Netanyahu, ha letto le foglie di tè. Deve camminare con i propri piedi nel vicinato arabo. Quello di ieri è il primo passo.

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