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La Stampa Rassegna Stampa
13.05.2020 Silvia/Aisha: gli articoli che disinformano
Di Monica Serra, Francesca Paci, Grazia Longo

Testata: La Stampa
Data: 13 maggio 2020
Pagina: 14
Autore: Francesca Paci - Monica Serra - Grazia Longo
Titolo: «'Traditrice tornata con l'abito islamico'. Tra gli odiatori c'è chi chiede l'impiccagione - Silvia tra libertà e insulti: 'Voglio solo pace'. La procura indaga sugli estremisti di destra - 'Mi sono convertita all'islam ma mi trattavano come prima'»
Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 13/05/2020, a pag.14-15, con il titolo " 'Traditrice tornata con l'abito islamico'. Tra gli odiatori c'è chi chiede l'impiccagione", l'articolo di Francesca Paci; con il titolo "Silvia tra libertà e insulti: 'Voglio solo pace'. La procura indaga sugli estremisti di destra", l'articolo di Monica Serra; con il titolo 'Mi sono convertita all'islam ma mi trattavano come prima', l'articolo di Grazia Longo.

La Stampa in edizione 'vecchia Repubblica' presenta oggi il caso Silvia/Aisha Romano con tre servizi che disinformano. La notizia più importante, sulle pagine del quotidiano torinese, diventa quella degli insulti contro la cooperante riscattata. E' così l'emotività, e non il lucido ragionamento, a dominare queste pagine, a differenza di quelle di Repubblica e Giornale che IC riprende oggi. Dello stesso genere l'articolo pubblicato a pag. 2 del dorso milanese del Corriere dal titolo "Giudizi insulti accuse e nessuna compassione. E' stata un'occasione persa".

Ecco gli articoli:

Francesca Paci: " 'Traditrice tornata con l'abito islamico'. Tra gli odiatori c'è chi chiede l'impiccagione"

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Francesca Paci

E meno male che il confinamento doveva renderci migliori. Se le invettive che nel 2004 accompagnarono la liberazione delle due Simone dall'Iraq post Saddam e dieci anni dopo quella delle cooperanti Greta Ramelli e Vanessa Marzullo nascevano dalle ceneri insanguinate delle Torri Gemelle, la gragnuola d'insulti abbattutasi su Silvia Aisha Romano è tutta figlia del nostro tempo, più chiuso, più povero, più incattivito. Per due giorni i social network hanno vomitato l'irripetibile contro la «traditrice tornata a casa con l'abito islamico», quella che «ci è costata un milione di euro mentre gli italiani muoiono di fame», «l'amica dei terroristi». Leoni da tastiera subito pronti alla zampata sessista e islamofobica, vecchi estremisti di destra reinventatisi paladini della cristianità ma anche politici come il consigliere venetista Nico Basso, che in un post poi rimosso avrebbe auspicato addirittura l'impiccagione, o il collega salviniano Michele Toaldo, indignato perché se «la ragazza si trovava così bene con i suoi sequestratori da convertirsi» era meglio risparmiare. Ci ha messo del suo anche Vittorio Sgarbi, il cui commento («andrebbe arrestata per concorso esterno in associazione terroristica») sarebbe al vaglio della Procura di Milano insieme a lettere, volantini, messaggi minatori a violenza crescente fino alla decisione di chiudere il profilo facebook della giovane volontaria milanese rimasta per un anno e mezzo nelle mani degli jihadisti di al Shabaab. A ben guardare ci sono tre elementi nel j'accuse contro Silvia Romano, tornata dall'inferno per ritrovarsi con la polizia sotto casa: la conversione non in quanto tale ma all'islam, la paura del futuro coltivata dai populisti e sbocciata durante la pandemia, l'oggetto donna. Mentre la mamma chiede pietà per questa figlia perduta, ritrovata, forse smarrita di nuovo ma viva, l'avvocato LGBTQI Cathy La Torre mette nero su bianco l'odio viscerale che l'immensità ambigua del grigio maschera da frustrazione: «Solo nell'ultimo anno sono stati liberati altri tre cittadini italiani: Luca Tacchetto, Alessandro Sandrini e Sergio Zanotti». Tutti e tre si sono convertiti all'islam ma, insiste La Torre, «nessuno, giustamente, ha avuto nulla da ridire». Per tutti e tre - Tacchetto in Burkina Faso, Sandrini al confine sirinao e Zanotti in Turchia - si è pregato, negoziato, applaudito il ritorno sotto qualsiasi credo sia avvenuto. Silenzio. «E' islamofobia bella e buona, se si fosse convertita all'ebraismo o al buddismo non se ne sarebbe parlato» scrivono sui social in arabo le diaspore tunisina, marocchina, egiziana, più veloci a difendere l'islam che la donna. Si sentono chiamati in causa ma tutti si rallegrano per l'allargamento della umma alla «sorella Silvia Aisha», alcuni dubitano che abbia scelto in libertà ed evocano la sindrome di Stoccolma, la vox populi è comunque che l'Italia è un Paese libero, insciallah. «L'odio e la paura sono antichi come l'uomo» scriveva il grande Zygmunt Bauman mettendo in guardia dall'età moderna che, unica nella Storia, li coltiva nel nome del bene. Silvia Aisha Romano, vistosamente verde, è un bersaglio facile. Anche troppo.

Monica Serra: "Silvia tra libertà e insulti: 'Voglio solo pace'. La procura indaga sugli estremisti di destra"

Ha detto che «è serena». Che tutte quelle minacce, quella pioggia di insulti sui social, non le fanno paura. Non teme che qualcuno voglia davvero farle del male. In un'auto dei carabinieri, Silvia Romano e la mamma, Francesca Fumagalli, sono arrivate alla caserma di via Lamarmora poco prima delle quattro del pomeriggio. Sulla tuta blu, una gonna nera a fiori. Attorno al capo, una pashmina coloratissima, a righe fucsia, rosse e dorate. Le due donne sono scivolate fuori dal palazzo al Casoretto, quartiere multietnico della periferia nord-est di Milano, senza farsi notare da giornalisti e curiosi. E sono state ascoltate per un'ora nella sala riunioni al primo piano della caserma, davanti all'ufficio del comandante dei Ros, Andrea Leo. Un'inchiesta per minacce aggravate contro ignoti è stata aperta dal pm Alberto Nobili, capo del pool antiterrorismo della procura milanese, per capire se dietro a quegli insulti (dai «Devi morire», «Devi fare la fine dei terroristi», agli «Impiccatela»), ci sia un pericolo concreto per la sua persona. E il magistrato prima ha ascoltato la 24enne cooperante liberata quattro giorni fa in Somalia, dopo diciotto mesi di prigionia. Poi la mamma, Francesca Fumagalli, che ha spiegato che, per quanto possibile, con l'aiuto di tutta la famiglia «sta provando a proteggere» la ragazza, «a tenerla lontana dai social e dal web». E per questo avrebbe provato anche a «chiudere» il profilo Facebook di Silvia, che resta comunque ancora visibile, anche se la sua privacy è stata fortemente ristretta. 
Non hanno ricevuto lettere minatorie, anche se qualcuna sta circolando, oltre a un volantino già sequestrato dai carabinieri del Ros. Un pezzo di carta appeso alla vetrata di un'edicola vicino casa di Silvia, che critica «le ingerenze politiche delle Ong che mettono a rischio i nostri pur lodevoli connazionali: buonismo, perbenismo e politicamente corretto non equivalgono a "solidarietà". Tutt'altro». 
Le accuse a Silvia, sui social, arrivano da ogni parte. Ci sono decine di politici, giornalisti, carabinieri, poliziotti e anche qualche magistrato che hanno scritto contro di lei. C'è pure Vittorio Sgarbi, secondo il quale la 24enne «va arrestata» per «concorso esterno in associazione terroristica». E Nico Basso, un consigliere comunale di Asolo, a Treviso, capogruppo della civica «Verso il futuro», ed ex assessore leghista, che sotto la foto della giovane ha scritto «impiccatela», per poi cancellare un post, su cui, in pochi minuti, si sono moltiplicati commenti violenti e carichi di odio. Ci sono messaggi che si limitano all'opinione. Altri con accuse ben precise. Molti provengono da ambienti xenofobi e razzisti, vicini a Forza Nuova e all'estrema destra, ma anche al mondo ultras. Non sono solo profili fake, ma tanti uomini e donne con nome e cognome. Criticano la scelta di Silvia di collaborare con un'associazione in Kenya «mentre in Italia c'è tanta gente che ha bisogno di aiuto e muore di fame». La scelta del governo di pagare un riscatto per liberarla «finanziando così i terroristi», la sua presunta conversione all'Islam. 
La famiglia intera ora «chiede pace». A partire dalla ragazza che «finalmente libera», vuole solo del «tempo per sé stessa», per «riprendersi», per pensare, «riannodare i fili degli ultimi due anni». Non sa cosa farà dopo, ma ora vuole restare «vicina ai suoi affetti» più cari, godersi quella famiglia da cui è stata tenuta lontana per troppo tempo. Sono queste le parole di Silvia che filtrano per bocca dei parenti e degli amici della famiglia. E non sono distanti dalle richieste che da giorni ripete sua mamma Francesca. «Come vuole che stia Silvia? Provate a mandare un vostro parente là due anni e vediamo se non torna convertito. Usate il cervello», ha detto alle tre del pomeriggio, tornando a casa, dopo aver portato il cane al parco. Segno di una normalità che la famiglia provata da questi giorni di grandi emozioni sta provando a ritrovare. «Vogliamo stare in pace, abbiamo bisogno di pace. Cerchiamo di dimenticare, di chiudere un capitolo e aprirne un altro». Poco prima il papà di Silvia, Enzo, era passato da casa con un regalo a farle un saluto. E per tutta la giornata, la famiglia ha ricevuto qualche visita di conoscenti e amici che volevano solo donarle dei fiori. Un mazzetto giallo è ancora sul portone di vetro del palazzo. Attorno è pieno di messaggi colorati di benvenuto per lei.

Grazia Longo: 'Mi sono convertita all'islam ma mi trattavano come prima'

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Grazia Longo

Ho capito subito di essere finita nelle mani dei terroristi di Al Shabaab, affiliati ad Al Qaeda a caccia di un riscatto. Perché quando, un mese dopo il sequestro, sono arrivata in una nuova casa, mi hanno detto: "Ora sei in Somalia, noi siamo un'organizzazione militare. Stai tranquilla, non ti faremo del male e sarai liberata". E io sapevo che la Somalia era assediata dagli islamici di Al Shabaab». Nuovi particolari emergono dall'interrogatorio di Silvia Romano - la cooperante milanese liberata sabato scorso dopo 18 mesi di prigionia - di fronte al pm Sergio Colaiocco e al colonnello Marco Rosi dei carabinieri del Ros, guidato dal generale Pasquale Angelosanto, domenica pomeriggio a Roma. A partire dalla consapevolezza di avere a che fare con terroristi che insanguinano la popolazione somala e puntano ai sequestri di persone occidentali per ottenere denaro finalizzato a foraggiare la jihad. «Poiché i mesi passavano e non succedeva niente, ho chiesto più di una volta se per liberarmi stessero aspettando un riscatto. Ma la riposta era sempre la stessa: "Noi eseguiamo solo gli ordini. Non sappiamo altro, siamo qui solo per farti da guardia". In tutto i miei carcerieri erano 6, facevano turni in tre alla volta. Soltanto uno parlava un po' di inglese. Con lui quindi cercavo di capire se volevano liberarmi in cambio di soldi». Diciotto mesi sono lunghi, un'eternità quando sei detenuta da uomini che non ti picchiano, non ti legano, ma ti costringono a dormire per terra su un materasso di fortuna e ti negano ogni forma di libertà. «Con il trascorrere dei mesi ho trovato un equilibrio e una forza interiore, grazie anche alla conversione all'Islam, ma più trascorreva il tempo e più temevo che la mia famiglia mi credesse morta. Per questo ho supplicato ripetutamente di farmi fare una telefonata a mia madre, ma mi hanno sempre risposto che non era possibile. Ho capito però che volevano dimostrare che fossi ancora viva quando mi hanno girato i due video». Anche in quelle occasioni, nel maggio e agosto 2019, Silvia torna sul tema del riscatto. «"Volete dimostrare che sono ancora viva?" domandavo, ma la risposta era sempre la stessa. Erano lì solo per controllarmi». Il diario Silvia annotava tutte le sue ansie su un diario. «Avevo chiesto e ottenuto un quaderno e una penna per poter scrivere. E grazie al diario sono anche riuscita ad avere il senso del tempo che trascorreva. Prima del rilascio però ho dovuto consegnarlo ai carcerieri». Quelle pagine custodiscono anche i motivi veri e profondi che l'hanno convinta a convertirsi all'Islam e a prendere il nome di Aisha, la moglie-bambina favorita di Maometto. «Dovunque fossimo, abbiamo cambiato sei covi, i miei carcerieri pregavano cinque volte al giorno. Dopo la conversione lo facevo anche io, ovviamente per i fatti miei, perché i musulmani non prevedono che gli uomini preghino insieme alle donne». Dopo la conversione, cambia anche l'abbigliamento di Silvia che deve nascondere i capelli. Inizia quindi ad indossare l'jilbab, l'abito delle donne somale con il capo coperto. Tipo quello verde che aveva quando è atterrata all'aeroporto di Ciampino con un volo di Stato. La fede in Allah nasce in lei lentamente, in maniera progressiva grazie alla lettura di un Corano su un computer portatile scollegato a Internet. Ma non modifica il comportamento dei terroristi nei suoi confronti. «Quando mi sono convertita mi hanno detto "Brava hai fatto la scelta giusta", ma non hanno cambiato atteggiamento. Non mi hanno cioè trattato meglio di prima. Hanno approvato la mia scelta, ma ogni cosa è rimasta com'era». Tutto fino al giorno del rilascio. Il 5 maggio Silvia viene informata che sarà liberata, il 6 parte con uno dei suoi carcerieri. Per tre giorni viaggiano, anche su un trattore, per raggiungere Mogadiscio. Qui avviene il primo scambio: Silvia viene consegnata a due uomini che su un'auto la conducono a trenta chilometri di Mogadiscio. E qui, sabato scorso, viene finalmente affidata a due uomini dell'Aise guidata dal generale Luciano Carta. «Dai, sali in macchina. È finita. Siamo dell'intelligence, ora ti portiamo in ambasciata e domani torni a casa, in Italia».

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