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La Stampa Rassegna Stampa
18.04.2020 Libia: ritratto di un criminale
Analisi di Domenico Quirico

Testata: La Stampa
Data: 18 aprile 2020
Pagina: 1
Autore: Domenico Quirico
Titolo: «Libia, 'lo zio' riprende Sabratha. Torna in pista il re degli scafisti»

Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 18/04/2020, a pag.1-16 con il titolo "Libia, 'lo zio' riprende Sabratha. Torna in pista il re degli scafisti" il reportage di Domenico Quirico.

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Domenico Quirico

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Tripoli

A Sabratha, se passeggi tra le rovine romane e il mare denso di un verde opalino, ti vien voglia di metter radici e restare per sempre nel più azzurro e ameno dei luoghi. Forse le terre del mito sono così: abbaglianti di luce, familiari, il margine del mare miracolosamente sgombro. Poi, in città, c'è la Libia che ti aspetti, i mercati sporchi, gli edifici slabbrati, i pick up con le mitragliere, i posti di blocco di brutta gente armata, le grida, i venditori ambulanti, gli scorci dei minareti, la guerra. E c'è, nel miscuglio, Ahmed al Dabbashi, detto «lo zio», celebre e torbido contrabbandiere di merce umana. Purtroppo lui è tornato a casa. Perché Sabratha è la sua città, qui è nato, e se l'è appena ripresa nell'unico modo che conosce, nell'unico modo che in Libia attecchisce, con le armi. I suoi concittadini non lo amano, non praticano con lui davvero l'avvilimento adulatorio: dicono che è soltanto un mafioso, un criminale di successo che ha usato la città come porto di imbarco per migliaia di disperati, incassando milioni. È triste dirlo: neppure le patenti rilasciategli dal barcollante governo di Tripoli, che definisce la sua banda una ufficiale e gradita milizia, li hanno convinti. Lo avevano cacciato. In mimetica e maglietta nera, la barba accuratamente potata dalle forbici come una siepe di bosso, dopo la vittoria, arringa, inveisce, delucida i suoi renitenti concittadini: «Mi aspettavo che mi veniste incontro per gioire della liberazione e fare festa…e invece vi siete chiusi in casa». Intanto le fiamme inceneriscono il poco che resta della stazione di polizia: «C'era una santa fatwa contro quel covo di traditori!». Esemplifica con colloquiali allusioni fondamentaliste. E la prigione a Sorman? Giace saccheggiata e vuota, dentro c'erano criminali comuni e uomini dell'Isis. Qualcuno sta già presentando il conto della vendetta, arrivano segnalazioni di gente sgozzata e picchiata. Un episodio remoto, una guerricciola quasi clandestina ormai in questo tempo italiano ingombro del velenoso cimurro pandemico? Non è così. Il ritorno di al Dabbashi a Sabratha rischia di esser per l'Italia una pessima notizia. Anche se l'alleato governo di Tripoli, sotto il cui comando molto nominale la città è stata ripresa, raccomanda moderazione. Lui promette che la polizia sarà ricostruita: «Poi torneremo a fare il nostro lavoro». E questo è il guaio. Perché «il lavoro» di al Dabbashi è lo «scafismo», che lui ha portato a perfezione industriale. Le teorie incarognite che attribuiscono all'Italia di averlo bonificato di alcuni milioni per rinunciare all'attività abominevole e redditizia sono state sempre smentite dal nostro governo: mai avuto a che fare con un simile tipaccio! Ci atteniamo, per carità, alla verginale verità ufficiale. Vien da dedurre, allora, che ripresa Sabratha e intatti essendo i suoi cromosomi imprenditoriali, il lavoro nel Mediterraneo ben presto riprenderà. Nell'anfiteatro romano ha giocato da ragazzino, «lo zio», mentre il padre impiegato alle poste, lo cercava nei vicoli. Al mercato ha lavorato, un po' fattorino un po' camallo, e poi un giorno è arrivata la notizia che Gheddafi non comandava più. E sì: anche «al Ammu», il trafficante, in fondo, è un figlio della rivoluzione araba. Il mondo in cui era cresciuto, aveva vent'anni, il mondo in cui ciò che è sempre stato è, l'età dell'inerzia, dopo l'evo del Colonnello, volgeva al termine, tutto stava per cambiare. E il mutamento doveva cominciare subito anche se nessuno sapeva che cosa ne sarebbe venuto, da questo imperativo categorico. Dabbashi scelse le terre basse della nuova Storia. Per diventare in fretta ricco. Qui, da anni, scontri armati, sopraffazione, abomini non li leggi sul giornale o li vedi in tv. Qui non hai scelta, le somme della violenza si tirano ogni giorno. E nulla può esser lasciato fuori. Lui ha scelto di impugnarla saldamente, la violenza, di usarla per diventare qualcuno. Le biografie criminali sono sempre sentieri incerti: un debutto criminale nel 2013, accoppa un miliziano di Zentan, uno di quelli che hanno preso Tripoli a Gheddafi, che, si dice, infastidiva le ragazze; poi affila i ferri con frettolose aderenze al Fronte jihadista libico. Ma i suoi paradisi sono più concreti, con fratelli e cugini mette su una banda: taglieggia negozianti e i camionisti che fanno la spola sulla litoranea con la Tunisia, garantisce sicurezza agli impianti petroliferi di Melitah (e sicurezza è un metabolismo verbale). Compra pick up e armi, ormai manovra due bande, la brigata «Ani Dabbashi», titolata a un cugino morto di mitra sul lavoro, e la «brigata 48» del fratello Mehemmed. Traslazione indicativa dal codice penale a quello dell'esercito. La guerra libica brucia alla svelta residui peccaminosi. Infuria intanto la Migrazione, e brama, svelto, l'imbarco nel business. Dove eccelle, ha estri da padrone del vapore capitalistico. Al Sarraj, un capo di governo fantoccio, ha chiacchiere e non un esercito. Provvedono all'ordine, con trasmutazione disinvolta, le bande criminali come la sua. Quando l'Italia realizza con lo sbilenco alleato libico, il setaccio anti-migranti, «lo zio» si converte da scafista milionario in zelante e malaffarista secondino. Si è affatturato un lodo di immunità. Ricercato da varie polizie spedisce in Europa e Turchia, a trattare gli affari, il fratello minore, il cadetto incensurato. Gli italiani, gli occidentali parlano di governo, esercito guardiacoste, polizia libica incontrano ministri e funzionari, firmano patti diplomatici. Che gran teatro, che recita! Dietro al palco sogghignano «al Ammu», e i suoi colleghi. Da Tobruk a Sabratha un'altra idea dell'uomo si è definita per gradi, un nuovo tipo di autorità e di sottomissione, ogni nostra etichetta è falsa. Gli uomini si sono sviliti e deformati, le nostre parole si sono dissolte.

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