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La Stampa Rassegna Stampa
19.03.2020 'To be or not to be' da Lubitsch a Mel Brooks
Commento di Alessandra Levantesi Kezich

Testata: La Stampa
Data: 19 marzo 2020
Pagina: 22
Autore: Alessandra Levantesi Kezich
Titolo: «'To be or not to be'. Da Lubitsch a Mel Brooks»

Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 19/03/2020, a pag. 22 con il titolo "'To be or not to be'. Da Lubitsch a Mel Brooks", la recensione di Alessandra Levantesi Kezich.

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Alessandra Levantesi Kezich


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Una scena di "To Be or not to Be"

Quando, per via della tisi, gli fu prescritto un lungo confinamento in un sanatorio, il musicologo Giorgio Vidusso esclamò: «Beh, finalmente potrò leggere La recherche!»; e, in effetti, lo fece. Questo per dire che se noi tutti - provando a scrollarci di dosso lo stato di ansia e apatia ingenerato dall'autoisolamento - ritrovassimo quello stesso spirito combattivo di contrapporre la vita sublimata nell'arte alla spettro della malattia, potremmo scoprire il piacere di rivisitare i classici del cinema. 
Magari iniziando con To Be or Not to Be, (titolo italiano Vogliamo vivere!) di Ernst Lubitsch, il grande cineasta ebreo berlinese che fra Germania e Usa ha impresso alla commedia il suo inconfondibile «touch».

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Il rifacimento di Mel Brooks

Realizzato nel 1942 nel pieno della guerra, il film si svolge al momento dell'occupazione nazista in una Varsavia palesemente ricostruita negli studios, dove una coppia di capocomici - i narcisi, vanesi e tutt'altro che eroici Joseph e e Maria Tura - riesce ad avere la meglio sulla Gestapo ricorrendo a travestimenti e trucchi da avanspettacolo: insomma all'arma di una polverosa illusione scenica che, in un continuo ribaltamento di finzione e realtà, svela la paccottiglia dietro la trionfalista facciata dell'apparato hitleriano.
Anche se all'uscita il film sconcertò molti per quel suo stare acrobaticamente in bilico tra dramma e farsa, fra «essere e non essere», gli anni gli hanno reso giustizia; e nel 1996 Mel Brooks lo ha riproposto cimentandosi in un delizioso remake versione musical. Dove, come nell'originale di Lubitsch, si dimostra che è possibile esorcizzare nella risata persino la tragedia dell'antisemitismo, senza per questo minimizzarla e lasciando spazio per l'emozione. Come nella scena in cui un attore ebreo, recitando il monologo di Shylock («Non ha forse occhi un ebreo? … mani, organi, affetti, passioni?»), esprime al di là del gioco di finzione la voce vera delle vittime del nazismo.

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