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Non dimenticheremo mail gli orrori del 7 ottobre (a cura di Giorgio Pavoncello) 15/01/2024


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La Stampa Rassegna Stampa
15.03.2020 L'iraniana Masha Mohebali: 'Sono libera solo fra le mura di casa'
La intervista Francesco Olivo

Testata: La Stampa
Data: 15 marzo 2020
Pagina: 2
Autore: Francesco Olivo
Titolo: «Non basta un velo per imprigionare una donna»

Riprendiamo dalla STAMPA/Tuttolibri del 14/03/2020,a pag.2, con il titolo "Non basta un velo per imprigionare una donna" l'intervista di Francesco Olivo a Masha Mohebali. 

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Francesco Olivo

«Non volevo smontare stereotipi», dice Masha Mohebali. Eppure non c'è riga del suo romanzo che non stupisca: «C'è un Iran dove siamo libere». Una di queste è Elham è una segretaria che alla libertà aspira, una delle Tehran girl che sfuggono a uno sguardo superficiale sull'universo persiano. Un romanzo che rompe con gli schemi linguistici e narrativi: la donna non è un oggetto e nella capitale della repubblica islamica circola alcol e trasgressioni. Dopo anni di ordini ricevuti ed eseguiti, arriva un macigno sulla vita di Elham: il padre, scomparso da 25 anni, è vivo e abita in Svezia. Tutto cambia. Sullo sfondo la Tehran di oggi, e i rapporti con quella di ieri. La storia della Rivoluzione e della sua deriva è troppo ingombrante per essere un dettaglio. 


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Masha Mohebali

Nel suo romanzo, pagina dopo pagina, emerge un conflitto generazionale: i genitori attivisti di sinistra prima della Rivoluzione e la figlia costretta a scendere a patti con il regime. «Tu non puoi capire», dice il padre alla figlia. L'Iran vive una frattura generazionale? 
«I conflitti generazionali esistono in ogni Paese, ma in Iran sono forse accentuati dal fatto che le generazioni più anziane sono state autrici di un cambiamento epocale. Hanno fatto una rivoluzione». 

Da un punto di vista narrativo lei rompe con molte convenzioni, utilizzando anche un linguaggio crudo e colloquiale. Ci sono autori che l'hanno ispirata?
«Il romanzo adotta il punto di vista della protagonista, Elham. È una giovane donna che si trova ad accettare sempre di meno le formalità e le ipocrisie della società, e le sfida. Un personaggio che rompe continuamente le regole del vivere quotidiano e non può esprimersi con una lingua ingessata. La lingua di Elham è arrabbiata, sarcastica, esprime un conflitto interiore: non parla mai in prima persona, ma si dà del tu, come se si rivolgesse degli ordini. Per costruire questa lingua, ho trovato ispirazione leggendo e rileggendo il primo capitolo dell'Urlo e il furore di Faulkner».

Dalla lettura del suo libro può emergere un sentimento di nostalgia verso un passato più aperto e laico?
«Non credo».

Prima della rivoluzione la società era più ingiusta?
«C'era un governo dittatoriale, ma laico, e la società era divisa in tre classi: l'entourage della famiglia reale, la borghesia urbana benestante e a scendere strati sempre più poveri». 

Perché gli iraniani hanno fatto la rivoluzione?
«Principalmente per due motivi: la ridistribuzione della ricchezza e l'uguaglianza sociale. E la libertà di espressione, che era soprattutto una richiesta degli intellettuali».

Gli intellettuali hanno una responsabilità nella deriva autoritaria?
«Si sono lasciati ingannare. Hanno dato il loro contributo alla rivoluzione, ma poi gli altri gruppi hanno preso il sopravvento e li hanno esclusi dal potere. Si sono trovati costretti a vivere sotto un governo teocratico, senza libertà di espressione e con le stesse disuguaglianze sociali se non peggio. Hanno lottato, sono stati torturati nelle prigioni dello Scià, sono stati uccisi, ma alla fine non hanno ottenuto nulla». 

I figli nati dopo la Rivoluzione quanto sono diversi dai genitori?
«I giovani però si sentono a posto con la coscienza. Non hanno fatto nessuna rivoluzione, ma non se la sono neppure lasciata rubare. È questa idea che alimenta il conflitto con i genitori. I giovani sono molto diversi. Non si vede più quella vivacità intellettuale che c'era prima della rivoluzione. Una grossa fetta pensa solo alla propria vita e in genere preferisce evitare di farsi prendere da grosse questioni».

Lei avrebbe preferito vivere nell'epoca del lo Scià? 
«No. Quando esco per strada vorrei sentire il vento attraversarmi i capelli, solleticarmi la fronte. Sono quarant'anni che mi viene negato questo diritto, ma non voglio tornare al periodo dello Scià, quando il vento e l'aria che respiravamo ci soffocava. Se solo il vento metteva un po' in moto le cellule del tuo cervello e cominciavi a pensare e a leggere i libri e i giornali clandestini, ti trovavi la Savak alle calcagna. Oppure dovevi fare per forza il finto tonto come se tutto andasse a meraviglia, finché tonto non lo diventavi per davvero».

Uno dei personaggi più interessanti del suo romanzo è Keyvanpur: è un uomo tipico della Teheran di oggi?
«È un uomo che non ha partecipato attivamente alla rivoluzione. Non era un intellettuale, era un uomo esclusivamente interessato alla bella vita. Ma dopo il '79, diventa un rivoluzionario religioso. È un opportunista, è l'esempio di chi ha approfittato dei ribaltamenti di potere per arricchirsi». 


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La sua Tehran è diversa dall'immagine che il regime vuole trasmettere: circola alcol, i rapporti tra uomini e donne non sono diversi da quelli di altre città del mondo. Ha voluto smontare gli stereotipi?
«Mi sono attenuta alla realtà della storia che raccontavo, senza la pretesa di dare un ritratto esaustivo dell'Iran. Forse si tratta di un'immagine meno conosciuta fuori dal Paese, questo sì, che il governo cerca di nascondere e negare».

Esistono due Iran?
«Sì, uno la cui vita si svolge all'esterno e uno dentro le case. Nel secondo Iran siamo liberi. Le donne amano essere sexy, si truccano e indossano abiti di lusso molto più che in altre parti del mondo, si fanno feste, si bevono alcolici e si fa uso di droghe. Nell'altro Iran le donne sono tenute a velarsi, ci sono mille divieti».

Quale immagine prevale in Occidente? 
«Quella delle preghiere del venerdì o dei raduni per gli anniversari della rivoluzione dove ci sono i sostenitori del governo pagati o minacciati di licenziamento».

Lei sembra non preoccuparsi della censura, è un elemento che invece ha un peso per il lavoro degli artisti iraniani?
«In realtà mi preoccupa molto. Tanto che non ho potuto pubblicare il mio romanzo in Iran e sono stata costretta a farlo in un altro paese dove si parla persiano, l'Afghanistan. La censura in Iran pesa come un macigno. Molto di più di quanto sembri. Il governo è molto attento a ciò che si scrive. La critica sociale e religiosa, i temi erotici sono le principali linee rosse. Le opere migliori non ricevono il permesso e rimangono anni a marcire nei cassetti». 

Si può essere autori liberi senza libertà di espressione?
«È una domanda che mi faccio di continuo. Io subisco delle limitazioni in ogni ambito della mia vita. Non ho nemmeno il diritto di vestire come mi pare. Non posso dire liberamente ciò che voglio e devo stare attenta a un'infinita serie di doveri e divieti. Stando così le cose, posso forse pretendere di essere totalmente libera quando scrivo? Certo che no. In realtà ho fatto uno sforzo enorme per cercare di distruggere le barriere che mi portavo dentro».

Com'è finita questa sua battaglia interiore?
«Mi sono imposta di scrivere e basta, senza pensare al resto».

Ha trasgredito?
«In apparenza sembra che io abbia ignorato parecchie regole e divieti, tanto che gli editori non se la sono sentita di presentare il romanzo all'Ershad – l'ufficio che concede il nullaosta – era chiaro che non avrebbe ricevuto il permesso».

Cosa le hanno consigliato gli editori?
«Ho lasciato passare due anni, dopodiché ho pensato che forse sarebbe stato meglio pubblicare il libro in un altro Paese di lingua persiana dove non c'è un ufficio per la censura. Ho spedito il libro a un editore afghano, Zaryab, che si era fatto conoscere per aver pubblicato la traduzione integrale di Lolita in persiano, e ha accettato».

Teheran Girl circola in Iran?
«Non viene distribuito nelle librerie. L'editore mi ha regalato copie, che ho fatto circolare tra amici. Per fortuna il libro sta trovando la sua strada e sta passando di mano in mano».

Qual è il suo giudizio sulle proteste che hanno riempito le piazze delle città iraniane? I manifestanti sono spinti da motivazioni economiche o esiste una critica ai principi di base della rivoluzione?
«All'inizio le proteste sono partite per il rincaro della benzina e per motivi economici. Ma se poi vengono represse e i manifestanti vengono uccisi, se le forze di sicurezza ricevono l'ordine di sparare, a quel punto la rabbia prende il sopravvento e tutti scendono in strada». 

Nel mondo il movimento femminista, ribattezzato #MeToo, ha scosso le coscienze: in Iran ne è arrivata l'eco?
«La protagonista del mio romanzo è una ragazza arrabbiata, per le condizioni di lavoro che le impongono i capi. Vedete, nei Paesi islamici la questione ci riguarda direttamente. Una volta, a Dubai, ho chiesto a una tassista se indossasse il velo per scelta o meno. Mi ha risposto che lo metteva solo sul lavoro. Nell'agenzia per cui lavorava non c'era nessuna regola che lo imponesse. Ma mi ha spiegato che se avesse subito molestie da un passeggero, la sua denuncia sarebbe stata accolta solo se lo indossava. I capelli scoperti, invece, sarebbero stati giudicati come un invito implicito».

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