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La Stampa Rassegna Stampa
24.01.2020 'La mia famiglia e il Lager, il dovere difficile del ricordo'
Rossella Fubini Tedeschi intervistata da Alma Toppino

Testata: La Stampa
Data: 24 gennaio 2020
Pagina: 4
Autore: Alma Toppino
Titolo: «La mia famiglia e il Lager, il dovere difficile del ricordo»

Riprendiamo dalla STAMPA - TORINOSETTE di oggi, 24/01/2020, a pag.4, con il titolo "La mia famiglia e il Lager, il dovere difficile del ricordo" l'intervista di Alma Toppino a Rossella Fubini Tedeschi.

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Per tutta la vita non ha mai chiesto alla madre di parlarle della prigionia a Birkenau. Il pudore e il peso del silenzio non glielo hanno mai permesso. Forse perché il dolore era troppo allora ed è tanto ancora adesso. Rossella Tedeschi Fubini aveva tre anni e mezzo e sua sorella Erica appena 11 mesi quando una notte dell'aprile 1944 i tedeschi vennero a prendere il padre Giorgio e la madre Giuliana Fiorentino a Torino. L'auto sulla quale le SS viaggiavano era però troppo piccola, le bambine non ci stavano. Sarebbero tornati a prenderle più tardi. Non fecero in tempo o, se tornarono, non le trovarono. La domestica le sottrasse alla catture e le affidò al convento "Il cenacolo" di corso Vittorio Contro gli stereotipi serve il racconto delle tante storie individuali accadute agli ebrei Emanuele II e ad amici di famiglia, riconosciuti in seguito come Giusti. Così si salvarono. Ma Rossella non rivide più il papà né la nonna, Eleonora Levi, internati ad Auschwitz. Tornò solo la mamma nel 1945.
Signora, che cosa significa per tutta la vita essere un testimone, convivere con il dovere del ricordo? «Guardi, quando mia madre mi ha riabbracciata io non la riconoscevo quasi più tanto era cambiata. Però era una donna solare, aveva un carattere forte e guardava in modo positivo alla vita. Volle raccontare subito la sua storia. Era un'insegnante, aveva facilità di scrittura. Pubblicò nel 1946, ancora prima di Primo Levi, "Questo povero corpo", consegnando memoria di quella che più tardi sarebbe stata nota come Shoah, e della deportazione femminile italiana nei Lager nazisti. Molti anni dopo, nel 1988, ritornò con "C'è un punto della terra", mettendo in luce i valori di solidarietà, di vicinanza e di collaborazione che si instaurarono tra donne all'interno del lager. In mezzo, c'era il peso del silenzio. Nel dopoguerra la gente voleva solo dimenticare».

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Lei stessa non ha mai dimenticato, anzi, non ha mai potuto ricordare. Il ricordo è faticoso? «Avevo pochi anni, ma lo spavento dell'irruzione notturna, la paura del distacco dai genitori, l'angoscia mi hanno provocato un trauma che ha del tutto cancellato i ricordi. Ma proprio per questo il dolore inespresso è incommensurabile».
Prima della deportazione, i suoi genitori hanno vissuto l'umiliazione delle leggi razziali che, tra l'altro, impedivano di accedere all'insegnamento e di essere iscritti agli albi professionali. «Sì, mia madre nel 1938 aveva appena ottenuto una cattedra per insegnare in un liceo e non poté farlo. Mio padre era architetto. Lavorava a Milano, insieme con Gio Ponti. Con lui ha elaborato tantissimi progetti, ma non ha potuto firmarli. Era già tanto se lo pagavano. Disegnava magnificamente ma, essendo daltonico, realizzò tante opere a carboncino o a matita. Pochi anni fa a lui e alla madre Eleonora, anch'ella pittrice, è stata dedicata la mostra "Percorsi interrotti" alla Biblioteca Nazionale. E prima ancora di arrivare alla deportazione, i miei, come tantissimi altri, hanno vissuto l'angoscia della fuga. Dopo aver cercato inutilmente di scappare in Argentina e in America, erano rimasti in Italia, sfollando però altrove, con il dolore di abbandonare casa e tutto ciò che avevano accumulato in una vita».
Ricordare anche oggi è più che mai importante. Il recente sondaggio Euromedia Research sulle discriminazioni ha rivelato sentimenti antisemiti basati su stereotipi. Da dove si deve partire secondo lei per contrastare questo fenomeno? «Io penso che sia giusto parlare degli ebrei Il Giorno della Memoria Compie 20 anni Ogni anno, il 27 gennaio, viene celebrato il "Giorno della Memoria" una ricorrenza internazionale designata dalla risoluzione 60/7 del l° novembre 2005 dall'Assemblea generale delle Nazioni Unite.— morti, ma è altrettanto fondamentale parlare degli ebrei vivi, sfatare certi pregiudizi anche su Israele. Due dei miei figli vivono a Gerusalemme e io mi divido tra Torino e Gerusalemme. Bisogna conoscere anche la realtà ebraica di oggi proprio per evitare falsità. A volte mi sembra che a Israele vengano imputate ogni sorta di colpe completamente infondate. E' come se si perseverasse nell'insegnamento del disprezzo. Ma oggi, come diceva Dan Segre, l'esistenza di Israele fa sì che gli ebrei non siano più oggetto ovunque di caccia grossa».
Il Giorno della Memoria è un tassello necessario; ma che cosa pensa del fatto che, sempre secondo questa ricerca, oltre il 30 per cento degli intervistati è convinto che gli ebrei parlino ancora troppo dell'Olocausto? «Io credo che occorra ripercorrere la Storia in tutte le sue sfumature, ma senza monopolizzarne in modo eccessivo i testimoni. Penso a Primo Levi, che è stato un po' troppo inflazionato. Senza togliere nulla al suo immenso valore letterario e al fatto che ha reso universale la sua sofferenza, bisogna accogliere altre voci, raccontare le infinite altre storie che purtroppo l'Olocausto ha troncato. Tempo fa l'Università di Torino allestì una mostra sui docenti torinesi allontanati dall'insegnamento a causa delle leggi razziali. Su ogni gradino era inciso un nome. E su questo nome il visitatore si soffermava, pensava alla persona che c'era dietro, alla sua storia. Così come accade anche per le Pietre d'inciampo che ogni anno vengono aggiunte nei luoghi in cui gli ebrei abitavano e dove non hanno più fatti ritorno. In questo modo la sofferenza viene contestualizzata. Ecco, io credo che questi esempi concreti, quasi tangibili, siano importanti per stimolare le coscienze. La strada giusta e adatta per i nostri tempi».
Il popolo ebraico come continua a tramandare la memoria della Shoah? «I testimoni diretti vanno scomparendo e oggi c'è il dovere di continuare a ricordare e di raccontare il passato ai giovani. Anche in Israele si fa un lavoro importante nelle scuole. Pensi che, durante una rievocazione con reading, la mia nipotina ad un certo punto esclama: "Ma sono le parole della nonna". Avevano letto brani del libro di mia madre. Quella Giuliana solare e forte che è riuscita a tornare e ha raccontato storie di dolore ma anche di solidarietà e di vicinanza, come solo le donne sanno fare».

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