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La Stampa Rassegna Stampa
18.01.2020 Tra i kurdi che resistono all'Isis: 'Invasi da Erdogan, traditi dall'Occidente'
Analisi di Bernard-Henri Lévy

Testata: La Stampa
Data: 18 gennaio 2020
Pagina: 8
Autore: Bernard-Henri Lévy
Titolo: «Tra i soldati curdi che resistono all'Isis: 'Invasi dalla Turchia, traditi da tutti'»

Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 18/01/2020, a pag.8 con il titolo "Tra i soldati curdi che resistono all'Isis: 'Invasi dalla Turchia, traditi da tutti' " il commento di Bernard-Henri Lévy.

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Bernard-Henri Lévy

Eccoli, i francesi dell'Isis. È una prigione moderna a Derik, a Sud di Qamishli, la capitale del Kurdistan siriano. Un missile turco è caduto nelle vicinanze, come per incitarli a fuggire. Ma la prigione è presidiata. Le guardie sono dotate di elmetto, mascherate, vestite di nero. E si entra nell'area di massima sicurezza solo dopo aver attraversato una serie di corridoi, cancelli e porte blindate. Sono una dozzina, raggruppati al fondo della cella, di spalle e, quando arriviamo stanno pregando. Ma al richiamo del loro cerbero appostato dietro lo spioncino, si voltano come un solo uomo e mi ritrovo di fronte quei jihadisti che erano, mi hanno spiegato, i più efferati assassini di Raqqa; ma qui, in questa stanza troppo illuminata, senza sfumature, che sa di cantina, con mucchi di coperte dai colori pacchiani, sembrano dei poveretti, le polo e i pantaloni della tuta sudici, gli occhi spenti, rassegnati.
Tranne uno, ferito, le gambe intrappolate in un dispositivo di morse e ferraglie, che mi grida, con accento piccardo: «Ti abbiamo riconosciuto!». Quindi, si alza un coro confuso di richieste lamentose: «Sai chi ci giudicherà e quando?». Questi uomini che hanno terrorizzato il mondo oggi sono tagliati fuori da tutto. Senza la luce del giorno, senza i cellulari, senza l'unica Tv che è stata loro tolta all'inizio dell'offensiva turca, non sanno, ad esempio, che Baghdadi, il loro Califfo, è morto. Hanno, in questo momento, una sola idea: essere estradati dal Rojava; non finire a Baghdad dove vige la pena capitale; tornare in Francia, il Paese dei diritti umani e del diritto alla difesa. Patetico. E diabolico.
Pochi chilometri più in là, seconda prigione. Quella dei bambini. In realtà, è una specie di chiostro delimitato da portici e trasformato in riformatorio. E ci sono un centinaio di adolescenti lì, tutti ragazzi, che, come il newyorkese Nelson, o Ahmed, che viene da Tolosa, affermano di non aver commesso nessun altro crimine che avere un padre o una madre terroristi. Sembrano piccoli animali braccati. Molti non sanno se i loro genitori sono ancora vivi. E hanno l'aria ansiosa e inquieta dei bambini privati del futuro. Ma subito siamo condotti in una stanza chiusa dove aspettano due francesi che per la maggior parte dell'intervista terranno gli occhi bassi. Uno aveva otto anni, racconta e, grazie all'esperienza che si era fatto al suk del suo Paese strappando gli occhi ai gatti, ha tagliato la gola a un vicino che aveva mancato di rispetto alla sorella maggiore. L'altro, viso d'angelo, bellissimi occhi grigi, stranamente vuoti, raccoglieva le teste che suo padre, carnefice di Raqqa, decapitava. Mio dio! Che fare di queste confessioni? Quale de-radicalizzazione, quale redenzione, per questi bambini mostruosi?
E il peggior crimine dell'Isis non è forse aver voluto fare di questi «leoncini» i garanti di un'infamia che passerà di generazione in generazione? Chiedo al secondo, il becchino in erba, se gli capita di pensare a questi volti senza corpi, di sognarli di notte. Mi fa ripetere la domanda. Per la prima volta mi guarda in faccia, ma con un'aria di indefinibile stupidità. Non sa più cosa significhi sognare.
Le Antigoni e gli 11 mila morti
Kurdistan è il suo nome di battaglia. È una piccola donna, carina, con i capelli intrecciati, che comanda un battaglione di cento ragazze di stanza da qualche parte vicino alla linea del fronte. I soldati, quando arriviamo all'alba, si stanno esercitando.
Ma ci accompagna in un edificio dove, con una manciata di compagne sedute, come lei, il Kalashnikov posato a terra, su un tappeto che ci evita l'impatto con il gelo mattutino del cemento grezzo, ci racconta, con voce musicale, e prendendosi il suo tempo, come l'unità ha vissuto l'invasione turca. Il ronzio degli aerei che copre l'avanzata, a terra, degli assassini venuti da Afrin. Le due ferite che sono andate a recuperare sulla strada, sotto il fuoco. Quella giovane eroina, uccisa a bruciapelo in un sobborgo di Tal Abyad, il cui ricordo le perseguita. E poi il momento in cui si sono rese conto che gli americani stavano davvero per andarsene e che dovevano tornare indietro per salvare ciò che si poteva della Comune di Rojava e poter, un giorno, contrattaccare. Penso alle donne combattenti che, nell'Iliade, erano le protettrici delle città.
Penso a Pentesilea, regina delle Amazzoni, che ama Achille, lo affronta in duello e, nella versione di Kleist, riesce a ucciderlo. La differenza è che queste giovani donne non amano né il loro nemico né nessuno. Queste guerriere sono sposate con il Rojava come le suore con Cristo. Né seduzione né passione: il puritanesimo laico di un popolo di Antigoni che vegliano sui loro 11.000 morti nella guerra contro l'Isis e, d'ora in poi, contro Erdogan.
Si dice che i curdi non abbiano amici tranne le montagne. In questo Kurdistan siriano, tutto in pianura, con lunghi villaggi costruiti a metà e rudimentali pozzi di petrolio, le montagne nemmeno ci sono. Questo significa che qui non hanno amici? L'ho chiesto a Fawza Youssef, scrittrice, femminista e membro della dirigenza collegiale di Rojava. No, ha protestato, a Qamishli, negli uffici surriscaldati dell '«Amministrazione per l'autogestione della Siria settentrionale e orientale». Le democrazie sono nostre amiche. Le società civili sono nostre amiche. E questa società, la nostra, quella che stiamo costruendo è anche nostra amica. È una società egualitaria. Non tiene conto delle differenze di religione o razza. Ed è contro la legge del patriarcato, che è la vera malattia dell'Islam, mette donne e uomini sullo stesso piano. Fawza non è marxista.

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La Repubblica dei Pari
 Aldar Khalil non ha alcun incarico ufficiale. È un veterano come gli altri di questo popolo armato che, dal 2011, ha costruito la sua Repubblica dei Pari. Non è altro, mi assicura con un vago gesto dell'unica mano che gli è rimasta, che uno degli ispiratori di una coalizione di partiti curdi che si chiama Movimento per una società democratica. Ma, dal rispetto che lo circonda, dall'entusiasmo delle sentinelle che, quando è arrivato, hanno interrotto la loro partita a backgammon e dal suo tono di finta modestia quando ammette che gli è capitato, sì, di fare una raccomandazione qui, d'impartire una direttiva lì, capisco che le cose sono più complicate e che, nella vera organizzazione del Rojava, all'interno del suo Comitato invisibile in cui nessuno dovrebbe, in linea di principio, avere la precedenza sugli altri, è lui a dominare. A differenza di Fawza, ha avuto una formazione marxista.
È anche l'unico dei nostri interlocutori ad assumersi con orgoglio il legame con il Pkk della Turchia. E, quando evoca e giustifica i mutamenti di alleanza a cui d'ora in poi sono condannati i curdi della Siria, lasciati dall'America, di nuovo con le spalle al muro, mi viene in mente il Lenin di cui Isaac Babel disse che a differenza del Dio di Pascal, traccia la curva con una linea retta. La stessa inflessibilità della volontà. La stessa freddezza nell'analisi della meccanica degli eventi. E la stessa arte della dialettica nel teorizzare, come il Lenin di Brest Litovsk, l'amaro compromesso con Assad e Putin.
Sull'altra sponda del Tigri, nell'altro Kurdistan, quello iracheno, l'Isis è tornato. Siamo a 40 chilometri a Nord di Erbil, sulla cresta di Karachok che è la posizione più alta dei Peshmerga dopo che, nell'ottobre 2017, in seguito al referendum di autodeterminazione, le milizie filo-iraniane del generale Qassem Soleimani li hanno cacciati dai territori «contesi». E l'Isis è lì, sì, a 800 metri da noi, in basso. Un proiettile di mortaio è atterrato qui un'ora fa. Poi il tiro di un cecchino che ha sfiorato il tetto delle casematte. 
Il generale Sirwan Barzani non sembra sorprendersi più di tanto. Ha sempre detto, ricorda, che i jihadisti inevitabilmente riempiranno il vuoto lasciato da questo ritiro forzato dei curdi.
Ed eccolo qui, questo magnate condottiero, questo presidente fondatore della compagnia nazionale delle telecomunicazioni, che trascorre di nuovo i suoi giorni e le sue notti, all'addiaccio, tra i suoi uomini, a montare la guardia contro i barbari. È questo eroismo civico che ho amato tra i Peshmerga. È questo fronte di cittadini soldati, dove si mescolano tutte le età e tutte le condizioni sociali, i signori delle colline di Barzan con i ruvidi contadini, le guance sporche di barbe, usciti dalla notte curda. Ed è questa fraternità inquieta e gioiosa che oggi ritrovo qui.
L'idea è stata approvata da Washington? O Steve Fagin, Console Generale degli Stati Uniti nel Kurdistan iracheno, ha deciso di testa sua questa proiezione dei Peshmerga nella mini zona verde blindata dove, nel distretto cristiano di Ankawa, nel cuore di Erbil, l'America ha il suo quartier generale? Non lo saprò mai.
Ora tutti, quando si riaccendono le luci, sembrano condividere la stessa nota di imbarazzo e, forse, di rimorso: sempre, in tutte le guerre, gli uomini liberi hanno le mani sporche di sangue; ma di solito è quello dei loro nemici; mentre lì, in Kurdistan, è quello dei loro amici, dei loro più coraggiosi e fedeli alleati; come ha potuto la nazione di Pershing e Patton, la più antica democrazia del mondo, la loro patria, arrivare a tradire se stessa fino a questo punto?


Il terzo Kurdistan
 All'epoca era presidente Massoud Barzani. Passò il testimone a Nechirvan, suo nipote, dopo il referendum rinnegato. E lo ritrovo nel palazzo dov'ero venuto a suggerirgli che, come de Gaulle aveva ottenuto da Eisenhower, in extremis, che una divisione francese liberasse Parigi, doveva ottenere il via libera dagli Stati Uniti per entrare a Mosul occupata dall'Isis. Ha mantenuto la stessa autorità silenziosa. La stessa presenza, nonostante sia così piccolo. E lo stesso vestito e il turbante dell'eterno Peshmerga. Con, tuttavia, un pizzico di amarezza quando racconta la storia della battaglia di Alton Kupri, dove uno dei suoi comandanti ha saputo, come Leonida alle Termopili, tenere a bada per diversi giorni una colonna guidata dalle guardie rivoluzionarie iraniane comandate da Qassem Suleimani in persona. 
O, meglio ancora, quella di Shila, dove le sue truppe distrussero 57 carri armati e di cui nessuno in Occidente ha mai parlato. Mondo. Mi piace questo magnifico perdente, che vaga nel suo palazzo deserto, come un vecchio re decaduto, senza gioia ma glorioso. E mi piace che, come Cincinnato, tornato al suo aratro, o Camillo, restituito alla saggezza dopo aver salvato Roma dall'invasione gallica, rimanga il padre della nazione. 
Siamo a tre ore di auto da Erbil, verso Est, molto vicino al confine iraniano. È qui che il terzo Kurdistan, quello iraniano, che si chiama Rojhelat, ospita i combattenti in esilio che prestano servizio con le uniformi dei Peshmerga. Sono un pugno di uomini in allerta che da quarant'anni pregano per la caduta del regime dei mullah. La posta in gioco è immensa. 
Questi guerriglieri delle retrovie, che si preparano costantemente a un assalto che non arriva, sono i più irriducibili tra i Peshmerga. Ma questa vita di attesa ed eroismo trattenuto, questo presentimento di uno scontro costantemente differito, questa successione di giorni in cui le armi restano inoperose e si può finire per morire dopo aver urlato «chi va là» a un nemico invisibile.
E poi, all'improvviso, non è più il deserto dei Tartari. E i pasdaran, dall'altra parte, snervati da questi instancabili combattenti della resistenza e dalle loro incursioni clandestine, decidono di colpire e lanciare, come l'anno scorso, una salva di tre missili che cadono, qui, a Koya, nel quartier generale del Pdk - di cui sono il braccio armato-. Siamo nella piccola stanza dove si era rifugiato, dopo il primo attacco, l'esecutivo del Partito, che quel giorno era riunito in seduta e dove fu falciato, pochi secondi dopo, dal secondo e dal terzo. Khalid Azizi, il segretario generale, poiché si era soffermato a soccorrere un ferito, fu miracolosamente risparmiato. Ma il resto dell'esecutivo è stato sterminato. 
Ma perché loro che corrono tutti questi rischi, sfidando i sentieri ghiacciati e i soldati iraniani che sparano senza preavviso, che ci ricordano i bosniaci che portavano rifornimenti a Sarajevo sul sentiero del monte Igman o gli internazionali che attraversavano i Pirenei per unirsi alla Repubblica spagnola, li vediamo come combattenti di un altro tipo di resistenza. La nazione curda ha pagato troppo per la sua resistenza e il suo sogno insopprimibile di un Kurdistan indipendente, libero e senza confini. Rendiamo loro giustizia. È ormai tempo.
traduzione di Carla Reschia

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