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La Stampa Rassegna Stampa
13.01.2020 Iran criminale spara sulla folla che protesta a Teheran. Gli studenti: 'Il nemico è il regime degli ayatollah, non Usa e Israele'
Cronaca di Giordano Stabile, commenti di Francesca Paci, Francesco Grignetti

Testata: La Stampa
Data: 13 gennaio 2020
Pagina: 6
Autore: Giordano Stabile - Francesca Paci - Francesco Grignetti
Titolo: «Rivolta in Iran contro Khamenei. La polizia spara sugli studenti ribelli - 'Il nemico ce l'abbiamo in casa, non è l'America'. E i manifestanti invocano il ritorno dello Scià - Teheran manda in piazza le ronde filo-regime: 'Dissidenti, siete iene'»
Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 13/01/2020, a pag.6, con il titolo "Rivolta in Iran contro Khamenei. La polizia spara sugli studenti ribelli", la cronaca di Giordano Stabile; con il titolo " 'Il nemico ce l'abbiamo in casa, non è l'America'. E i manifestanti invocano il ritorno dello Scià", il commento di Francesca Paci; a pag. 7, con il titolo "Teheran manda in piazza le ronde filo-regime: 'Dissidenti, siete iene' ", il commento di Francesco Grignetti.

A destra: proteste contro le menzogne del regime a Teheran

Ecco gli articoli:

Giordano Stabile: "Rivolta in Iran contro Khamenei. La polizia spara sugli studenti ribelli"

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Giordano Stabile

Piazza Azadi, piazza della Libertà. Questa volta i giovani di Teheran hanno puntato a un luogo simbolo della capitale, ai piedi della grande torre che segna lo skyline della città. Un assalto al centro del potere che è terminato con durissime cariche della polizia, lacrimogeni, poi colpi di arma da fuoco. La morte dei 176 passeggeri del Boeing ucraino, abbattuto per sbaglio dalla contraerea dei pasdaran all'alba di mercoledì scorso, ha innescato una catena di reazioni incontrollabili e messo la dirigenza della Repubblica islamica in affanno. La rabbia degli studenti è cresciuta per mesi, man mano che la morsa del regime si faceva sempre più stretta. L'uccisione di Qassem Soleimani ha risvegliato per qualche giorno l'orgoglio patriottico, ma la negligenza dei Guardiani della rivoluzione nella notte della rappresaglia contro gli Usa, la sequela di bugie, ha spinto gli iraniani a scavalcare tutte le linee rosse.
Dopo le veglie e le proteste davanti alle università di sabato, ieri le manifestazioni si sono allargate ad altre città, Isfahan, Mashhad, Sanandaj, Amol. Ma l'epicentro è stata la marcia verso piazza Azadi, con le candele accese in mano, al canto di «morte al dittatore», «chiedete scusa e dimettevi», «vergogna», «il nemico non è l'America, è fra noi», e ancora «via il capo delle forze armate», un altro modo per dire via la guida suprema Ali Khamenei, protetta da una severa legge contro il vilipendio e mai nominata in prima persona. Khamenei è però il bersaglio principale, il simbolo. Altri simboli vengono invece rovesciati, le immagini di Soleimani strappate, studenti che si rifiutano di camminare sulle bandiere americana e israeliana dipinte all'ingresso degli atenei. Un campionessa esaltata dal regime, la medaglia olimpica nel taekwondo, Kimia Alizadeh, che annuncia la sua fuga in Europa.
La rapidità del cambio di umore sembra spiazzare le autorità. A Teheran, Internet e i cellulari funzionano in maniera regolare, e alimentano la protesta, mentre due mesi fa la Rete era stata bloccata nella settimana del massacro, a partire dal 15 novembre, e la repressione era stata implacabile. Adesso un flusso continuo di video porta le manifestazioni davanti all'opinione pubblica mondiale. Ne approfitta Donald Trump, su Twitter, anche in farsi, per ammonire la dirigenza iraniana a «non uccidere la propria gente» ed esprimere solidarietà agli studenti, mentre il premier britannico Boris Johnson condanna l'arresto, per alcune ore, dell'ambasciatore a Teheran, colpevole di essersi unito agli studenti sabato sera.
La tragedia del Boeing, subito dopo l'uccisione di Soleimani, ha aperto una crepa. Lo testimoniano le parole, inusuali, del presidente Hassan Rohani contro i responsabili del disastro, «un errore imperdonabile». Il fronte oltranzista appare indebolito dalla perdita del comandante delle Forze Al-Quds, architetto dell'espansione nel Levante arabo e uomo chiave sul fronte interno. I riformisti prendono fiato. Mehdi Karroubi, ex candidato presidenziale e leader dell'Onda verde nel 2009, da dieci anni ai domiciliari, torna a parlare, appoggia la protesta, chiede anche lui le dimissioni di Khamenei.
Gli studenti erano tra le forze trainanti nelle manifestazioni del 2009, non in quelle dello scorso novembre, guidate da lavoratori poveri e disoccupati. Se il blocco urbano si salda con i sobborghi devastati dalla crisi economica, per il regime la sfida diventerà insidiosa. Basij e Pasdaran sono scossi dalla smacco dell'8 gennaio. Ieri il Parlamento ha elogiato il comandante delle Forze aeree, Amir Ali Hajizadeh, per il «coraggio» nell'ammettere le sue responsabilità. Ma l'abbattimento del Boeing ha segnato un giro di boa nella psicologia sia del popolo sia dell'establishment.

Francesca Paci: " 'Il nemico ce l'abbiamo in casa, non è l'America'. E i manifestanti invocano il ritorno dello Scià"

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Francesca Paci

Sul principio è stata la veglia funebre per il Boeing ucraino abbattuto dalle Forze aeree dei Guardiani della rivoluzione, 176 vittime tra cui 82 iraniani. Poi, come se le candele riaccendessero la frustrazione sedata dalla durissima repressione degli ultimi mesi, gli abitanti di Teheran, Sanandaj, Kermanshah, Zanjan si sono guardati intorno e hanno visto tanta gente, uomini e donne, tutti arrabbiati con un regime che oltre a opprimere il popolo lo uccide «per errore» e, riposti i cartelli listati a lutto con scritto «Vergogna», hanno cominciato a scandire «Morte al dittatore», «Referendum» «No Gaza, no Libano ma solo Iran», «Dio benedica Shah Reza». 
«Siamo scesi in strada a portare candele per i nostri connazionali e per gli altri passeggeri ammazzati dai sepah (i pasdaran, ndr), da settimane non vedevo tanta gente in piazza, dopo le ultime proteste per il pane, il blocco di internet e gli arresti a valanga, nessuno aveva voglia di uscire di casa». Amir K., 29 anni, informatico, abita a Teheran. Sabato sera ha accompagnato il fratello minore al sit-in nell'università Shahid Beheshti, la stessa dove i giovani hanno evitato di calpestare le bandiere americana e israeliana dipinte in sfregio sul pavimento per affermare che «ci mentono additando gli Stati Uniti come il nostro nemico, il nostro nemico è qui». Anche ieri si è unito al flusso che, inizialmente riluttante, è montato in parallelo alla confusione del governo, messo quasi più in crisi dal Boeing che dall'assassinio di Soleimani. 
Amir aveva partecipato all'onda verde del 2009. Oggi, dice, è tutto più complesso: «In piazza ho visto studenti, tante ragazze, gruppetti di sinistra che non vogliono gli ayatollah e neppure gli americani, in linea su questo con i nostalgici di Khatami e con quanti hanno sperato nel riformismo del presidente Rohani o nel pragmatismo di Zarif. C'è chi denuncia il carovita, chi la corruzione, chi chiede democrazia e chi una monarchia illuminata. È un'esplosione estemporanea, sorprendente, credo che anche il regime sia spiazzato, che non si aspettasse questa reazione per un "errore" tutto sommato ammesso in tempi relativamente brevi e condannato da Rohani come "imperdonabile"».
Venerdì la settimana più lunga della teocrazia iraniana ha trovato il bivio fatale, dove l'escalation a guida americana sembrava tale da ricompattare un Paese intorno all'amor patrio. Ma la storia ha svoltato in direzione opposta. Adesso tocca alle forze dell'ordine che da ore tirano lacrimogeni e manganellano, presto toccherà ai governativi che intoneranno a loro volta l'amore incondizionato per l'ayatollah e l'odio per il Grande e il Piccolo Satana. Molti si aspettano che internet venga oscurato di nuovo (per ora va). 
«Ho perso le mie sorelle durante la carica, ci siamo ritrovati dopo tanto tempo, ma stavolta non ci rinchiuderanno in casa - racconta Soehil da Bushehr, la città del reattore nucleare -. Il regime è perduto, la gente canta canzoni nazionaliste come "Ey Iran", mio padre ha recitato in strada vecchie poesie e le minacce dei giorni scorsi, quando i pasdaran ordinavano ai negozianti di affiggere il poster di Soleimani sulle vetrine, pena l'arresto, non fanno più così paura. Le vittime del Boeing ci hanno uniti in ordine sparso ma poi ci siamo riconosciuti». 
Da molte parti si levano voci che chiamano all'appello il figlio dello Scià, l'erede di un passato seppellito dalla rivoluzione del 1979 ma vivo. Hassan, 63 anni, un monarchico convinto abituatosi a tacere adesso parla: «È un momento critico, il regime traballa, ma non possiamo rischiare la guerra civile, gli iraniani in piazza sono pacifici eppure le armi girano». Il nipote sogna la democrazia all'europea, lui gli spiega che «recuperare la corona sarebbe oggi la zattera di salvataggio per il Paese».

Francesco Grignetti: "Teheran manda in piazza le ronde filo-regime: 'Dissidenti, siete iene' "

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Francesco Grignetti

L'eco delle proteste stavolta è arrivato fino a Roma, non foss'altro perché a poche centinaia di metri dalla nostra ambasciata a Teheran ieri all'ora di pranzo si stavano radunando molti giovanotti dall'aria bellicosa. In verità, l'oggetto delle loro attenzioni non erano gli italiani, assolutamente benvoluti nel Paese degli ayatollah, quanto gli inglesi. 
Le due ambasciate sono poco distanti; c'è uno stradone che le separa, la Ferdowsi Avenue. E la polizia in assetto antisommossa si è subito schierata a metà della carreggiata, perché fosse chiaro che i manifestanti non dovevano varcare un'invisibile linea rossa: di qua c'era la nostra e altre intoccabili sedi diplomatiche, di là quella britannica, presidiata da un velo di agenti. 
È finita come doveva finire: con una bandiera britannica incendiata a favor di telecamere davanti al cancello e i soliti slogan di «Morte alla Gran Bretagna». E infine molte urla contro l'ambasciatore, sir Rob Macaire, «colpevole» di aver filmato le manifestazioni dell'altro giorno, e per questo motivo perfino fermato dalla polizia a dispetto dello status diplomatico. 
Non si dimentichi che Alaeddin Boroujerdi, membro della commissione parlamentare sulla sicurezza nazionale e politica estera, ha prontamente accusato l'ambasciatore Macaire di aver organizzato lui le proteste e ha chiesto la sua espulsione.
Obiettivo ultimo della manifestazione era creare le premesse per la chiusura dell'ambasciata britannica. Già, perché questa manifestazione era a favore del regime, non contro. 
La manifestazione di ieri, insomma, è stata organizzata con il preciso scopo di dimostrare al mondo che la gioventù iraniana non è solo quella che protesta contro il potere teocratico. Nossignore, questa manifestazione era a favore del potere e in special modo dell'ala più intransigente, quella che fa capo ai Guardiani della Rivoluzione, detti anche «pasdaran», peraltro sul banco degli accusati in quanto è stato proprio un loro reparto ad abbattere l'aereo civile ucraino. 
Alla fine erano circa 200 i manifestanti filo-governativi che hanno dato fuoco alla bandiera di Sua Maestà la Regina. Migliaia e migliaia quelli dell'altra parte che hanno sfidato la repressione. Ma il segnale più inquietante s'è visto al mattino, quando gli stessi giovanotti filo-governativi hanno marciato nei pressi dell'Università Amirkabir, la «University of Tecnology» che era stata due giorni fa il fulcro della protesta anti-regime. Urlavano slogan contro i loro coetanei che chiedono la democrazia. Un grido in particolare: «Iene!». 
Iene, sì, perché agli occhi di questi sostenitori fanatici del governo, chi protesta ha rialzato la testa nel momento della difficoltà nazionale, con il corpo del generale Soleimani appena sepolto, i missili sparati sulle basi americane irachene, e il clamoroso, imperdonabile errore che ha fatto inorridire il mondo. 
Per fortuna tra i due schieramenti ieri non ci sono stati scontri. Tante volte, negli ultimi anni, i giovanissimi aderenti ai pasdaran, i cosiddetti «basij», che sono una sorta di milizia volontaria e paramilitare, si sono scagliati contro le manifestazioni di chi chiede più libertà o più democrazia. Accadde nel 2009, al punto che Amnesty International chiese espressamente al governo di fermarli. 
E questo era il timore che è circolato negli ambienti diplomatici, ieri: non soltanto che l'annunciata manifestazione a Teheran contro l'ambasciata britannica potesse sfociare in qualche cosa di più grave che delle invettive (nessuno dimentica l'occupazione dell'ambasciata americana nel 1979), ma soprattutto che si scagliassero con violenza contro chi ha avuto il coraggio di dire che «il nemico è qui, non è l'America».

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