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La Stampa Rassegna Stampa
09.01.2020 Iran contro la pace: ecco la situazione
Cronache di Giordano Stabile, Paolo Mastrolilli

Testata: La Stampa
Data: 09 gennaio 2020
Pagina: 7
Autore: Giordano Stabile - Paolo Mastrolilli
Titolo: «Dagli 'schiaffi' di Khamenei al dialogo di Zarif. Le due anime del regime - Trump risponde ai missili con le sanzioni: 'Siamo pronti alla pace con Teheran'»
Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 09/01/2020, a pag.7, con il titolo "Dagli 'schiaffi' di Khamenei al dialogo di Zarif. Le due anime del regime", la cronaca di Giordano Stabile; a pag. 6, con il titolo "Trump risponde ai missili con le sanzioni: 'Siamo pronti alla pace con Teheran' ", il commento di Paolo Mastrolilli.

Ecco gli articoli:

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Ali Khamenei

Giordano Stabile: "Dagli 'schiaffi' di Khamenei al dialogo di Zarif. Le due anime del regime"

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Giordano Stabile

Poco prima della mezzanotte di martedì sugli account arabi filo-iraniani sono apparsi i primi messaggi. «È arrivato il momento». Il momento della vendetta per l'uccisione di Qassem Soleimani e «l'inizio della fine della presenza americana in Medio Oriente». L'infinito omaggio al «comandante» era appena terminato, tre giorni di esequie, e le aspettative nel fronte sciita «della resistenza» erano altissime. Non bastano 22 missili che non hanno fatto neppure una vittima a soddisfarle. Per questo la giornata di ieri, in Iran come in Libano e Iraq, è trascorsa sotto una doppia narrazione. Una rivolta all'Occidente, soprattutto all'Europa, e più distensiva, l'altra confezionata su misura per l'opinione pubblica interna. E lo stesso regime è apparso sdoppiato, fra l'anima oltranzista e quella riformista, nel tentativo di portare avanti entrambe le versioni degli attacchi alle basi americane.
I primi a commentare sono stati i pasdaran. Hanno diffuso un bilancio di vittime altissimo, 80 morti e 200 feriti, subito ripreso dai media locali, ma anche da quotidiani libanesi. I media arabi sciiti hanno anche diffuso la voce che fosse in corso «un ponte aereo» fra la base e ospedali militari nel Golfo e persino «a Tel Aviv», dove erano stati trasferiti «224 soldati americani con gravi ferite». Il tutto mentre da Teheran le Guardie rivoluzionarie rivendicavano l'attacco, «la fiera vendetta» appena «cominciata». Poi parlava Ali Khamenei, guida suprema della Repubblica islamica. Appariva ancora commosso, dopo le lacrime sul feretro di Soleimani, e le parole erano di fuoco. L'Iran «ha dato uno schiaffo agli Stati Uniti», attaccava, ma non è «ancora abbastanza». La «presenza maligna» degli americani in Medio Oriente «deve finire».
Era la linea dei pasdaran e di tutto il fronte oltranzista: continuare a colpire fino a espellere le forze statunitensi dalla Mesopotamia e dal Golfo Persico. Un concetto ribadito anche dal presidente Hassan Rohani. «Avete tagliato le mani a Soleimani ma noi taglieremo i vostri piedi dalla regione», erano le sue prime frasi nella riunione di emergenza del governo: «L'Iran non indietreggerà mai di fronte all'America». Poco dopo appariva in tivù, con un discorso però più sfumato: «Gli Stati Uniti hanno commesso un crimine, dovevano aspettarsi la nostra risposta, se sono saggi non intraprenderanno altre azioni». Un cambio di toni confermato sui social. Su Twitter spiegava come Soleimani «ha combattuto contro l'Isis e Al Qaeda» e ha in questo modo resa più sicure «anche le capitali europee».
È la linea dei riformisti, che cercano di accreditarsi come interlocutori affidabili dell'Europa. Una linea subito ribadita dal ministro degli Esteri Mohammad Javad Zarif, possibile candidato a succedere a Rohani nelle presidenziali del 2021. Precisava che l'Iran aveva «condotto e concluso» una rappresaglia «proporzionata», «legittima in base all'artico 51 della Carta dell'Onu», e insisteva sul fatto che Teheran non cercava «escalation o guerre». Ed è su questo punto che la spaccatura fra riformisti e oltranzisti, vera o messa in scena che sia, appare più netta. Per i pasdaran la vendetta non è «conclusa» e si articolerà in più «fasi». Per il governo Rohani invece non servono altri attacchi, a meno che non ci sia una rappresaglia americana, come spiegava il ministro della Difesa Amir Hatami: «Ogni prossimo passo sarà proporzionato alle azioni che gli Stati Uniti intraprenderanno».
C'è ancora spazio per le trattative. Lo conferma anche il fatto che l'uscita dall'accordo sul nucleare non è ancora definitiva da parte di Teheran. Ma questo si concilia male con la narrazione dei pasdaran della «schiacciante vendetta», della «cacciata degli americani». Ieri sera i media iraniani, e arabi, hanno cominciato a diffondere immagini dei lanci di missili e foto satellitari della base di Ayn al-Asad, che mostravano edifici demoliti e anneriti. Ribadivano che era stata «completamente distrutta», mentre i pasdaran minacciavano: «Se l'Iran dovesse essere attaccato sul suo territorio, Dubai, Haifa e Tel Aviv verranno colpite in un terzo round». Nella loro narrazione l'attacco alle basi era stato chirurgico e perfetto, come quello contro le installazioni petrolifere saudite di Abqaiq, il 14 settembre. Il problema adesso è capire quale versione prevarrà al vertice della Repubblica islamica.

Paolo Mastrolilli: "Trump risponde ai missili con le sanzioni: 'Siamo pronti alla pace con Teheran' "

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Paolo Mastrolilli

Il presidente Trump ha deciso di rispondere ai missili lanciati martedì notte dall'Iran su due basi irachene imponendo nuove sanzioni, ma non ha minacciato altri attacchi come quello che aveva ucciso il capo dei pasdaran Soleimani. Nonostante altri due missili siano caduti ancora ieri sera sulla Green Zone di Baghdad. 
Il presidente americano ha chiesto alla Nato di aumentare il suo impegno nella regione mediorientale, e soprattutto ha sollecitato Francia, Germania, Gran Bretagna, Russia e Cina ad abbandonare ciò che resta dell'accordo nucleare Jcpoa. Così ha aperto la porta al negoziato per una nuova intesa più ferrea sulle armi atomiche, ma allargata ad altre questioni scottanti come le aggressive ingerenze di Teheran nell'area e il suo programma missilistico. Anche la Repubblica islamica aveva segnalato la volontà di evitare una guerra aperta, se però fermerà le rappresaglie dei suoi alleati, e tornerà a trattare, è tutt'altro che scontato. 
Martedì l'Iran ha lanciato 22 missili, anche se le stime variano, contro le basi di al Asad ed Erbil che ospitano soldati americani. Prima di farlo ha avvertito gli iracheni, che hanno informato gli Usa. Il sistema di allarme dell'intelligence americana stava già controllando gli spostamenti dei missili, e quindi sono state evitate vittime. Gli ayatollah in sostanza volevano lanciare un messaggio domestico e internazionale senza però provocare un conflitto. Infatti il ministro degli Esteri Zarif ha subito detto che la rappresaglia era conclusa, e il giorno dopo il leader spirituale Khamenei l'ha definita «uno schiaffo» agli Usa. 
Così Teheran ha aperto lo spazio per fermare l'escalation, che Trump ha deciso di usare. Parlando ieri mattina ha esordito dicendo che «fino a quando sarò presidente l'Iran non avrà l'atomica». Poi ha sottolineato che i missili lanciati martedì non avevano fatto vittime o danni seri, e ha notato che la Repubblica Islamica «sembra abbassare le armi, una cosa buona per tutte le parti. Gli Usa sono pronti ad abbracciare la pace con tutti coloro che la cercano». Il capo della Casa Bianca ha annunciato nuove sanzioni e ha chiesto alla Nato una presenza maggiore nella regione, ma non ha minacciato altri attacchi, anche perché il bilancio dell'ultimo scontro è stato positivo per lui: Washington ha eliminato il principale comandante militare di Teheran, che ha risposto solo con una rappresaglia simbolica. Così ha ristabilito la deterrenza, e da questa posizione di forza ha chiesto ai paesi membri del Jcpoa di abbandonarlo, per negoziare un nuovo accordo. Questa partita dunque si chiude qui. Le incognite ora sono due: primo, se gli ayatollah fermeranno anche i loro «proxy», oppure le ritorsioni continueranno; secondo, se sono disposti ad esplorare il dialogo, come hanno fatto negli ultimi giorni usando gli intermediari svizzeri, oppure vogliono rilanciare la sfida sperando che Trump perda le elezioni di novembre.

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