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La Stampa Rassegna Stampa
02.01.2020 Gli Usa non lasciano Baghdad: è l'Iraq il terreno dello scontro con l'Iran degli ayatollah
Due servizi di Francesco Semprini

Testata: La Stampa
Data: 02 gennaio 2020
Pagina: 10
Autore: Francesco Semprini
Titolo: «Assalto all'ambasciata. Gli Usa mandano i rinforzi: 'Non lasceremo Baghdad' - Trump colpisce le milizie di Teheran. L'Iraq è il cuore della 'guerra tiepida'»
Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 02/01/2020, a pag.10, con i titoli "Assalto all'ambasciata. Gli Usa mandano i rinforzi: 'Non lasceremo Baghdad' ", "Trump colpisce le milizie di Teheran. L'Iraq è il cuore della 'guerra tiepida' ", due servizi di Francesco Semprini.

A destra: Donald Trump, la Guida suprema iraniana Khamenei

Ecco gli articoli:

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Francesco Semprini

"Assalto all'ambasciata. Gli Usa mandano i rinforzi: 'Non lasceremo Baghdad' "

Le Forze di Mobilitazione Popolare (Hashd al-Shaabi), la coalizione di milizie paramilitari sciite pro-iraniane attive in Iraq, ordinano ai manifestanti di cessare le proteste davanti all'ambasciata americana a Baghdad, mentre gli Stati Uniti fanno arrivare nuove forze a presidio della sede diplomatiche e schierano altri 750 militari in Medio Oriente. È una rapida escalation di crisi quella a cui si è assistito negli ultimi giorni in Medio Oriente, in particolare dall'attacco condotto dagli Usa contro basi strategiche di Kataib Hezbollah, nei pressi del valico di al Qaim, a cavallo del confine con la Siria, che ha provocato la morte di almeno 25 combattenti e 55 feriti, come ritorsione all'attacco missilistico alla base di Kirkuk di venerdì scorso in cui è rimasto ucciso un contractor americano e ferite alcuni militari Usa. 
La reazione delle Unità di mobilitazione popolare (Pmu), l'ombrello a cui fanno capo le brigate sciite in Iraq vicine alle forze Quds dei Guardiani della rivoluzione islamica dell'Iran (tra cui Kataib Hezbollah) è stata l'avvio di una nuova fase che ha come obiettivo «la cacciata del nemico americano» dal Paese. Ne ha fatto seguito, il 31 dicembre, l'assedio all'ambasciata Usa: migliaia di persone hanno raggiunto la sede, oltrepassando i checkpoint della Green Zone, abitualmente blindata, al grido di «morte all'America» e bruciando bandiere a stelle e strisce. «Senza incontrare resistenza da parte della forze di sicurezza locali», affermano alcuni testimoni. Sebbene i media internazionali sostengano che le stesse forze abbiano poi respinto l'attacco. Una torretta dell'ambasciata è stata data alle fiamme mentre dall'interno i Marines di presidio hanno sparato gas lacrimogeni per disperdere la folla. 
Dopo 24 ore di assedio i vertici di Pmu hanno ordinato ai manifestanti di ritirarsi, una fazione ha tuttavia rifiutato di ritirarsi. Il Pentagono ha fatto arrivare nella notte elicotteri con a bordo rinforzi, assicurando che non si procederà a nessuna evacuazione. Il ministro della Difesa americano, Mark Esper ha inoltre annunciato che invierà «immediatamente» circa 750 soldati aggiuntivi in Medio Oriente, «in risposta ai recenti eventi in Iraq». «Circa 750 soldati saranno schierati immediatamente nella regione e ulteriori forze» sono pronte per essere impiegate «nei prossimi giorni», ha detto Esper. «Questo dispiegamento è un'azione precauzionale e appropriata in risposta ai crescenti livelli di minaccia contro il personale e le installazioni americane, come abbiamo assistito a Baghdad», ha affermato il ministro della Difesa americano. 
L'attacco all'ambasciata americana a Baghdad è stato opera di «terroristi» sostenuti da «alleati dell'Iran -. sostiene Pompeo nominando quattro leader di milizie filo-sciite -. Sono stati fotografati davanti all'ambasciata».

"Trump colpisce le milizie di Teheran. L'Iraq è il cuore della 'guerra tiepida'"

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I "Guardiani della Rivoluzione" iraniani

L' escalation registrata in Iraq è il capitolo più recente della guerra «tiepida» tra Stati Uniti e Iran che si trascina da quasi due anni. Ovvero da quando l'amministrazione di Donald Trump ha deciso di smontare il Joint Comprehensive Plan of Action, l'accordo sul nucleare iraniano, siglato nel 2015 dopo un lungo negoziato Onu. La decisione rispondeva alle nuove esigenze di politica internazionale degli Usa, arroccati, dopo l'insediamento di Trump, sulla triangolazione con Israele e Arabia Saudita e più in generale con il sodalizio con le potenze sunnite. 
L'obiettivo era quindi sfilarsi da un accordo che il presidente riteneva penalizzante per l'America e allo stesso tempo impedire il rafforzamento regionale di Teheran, iniziato con il ruolo svolto dalla Repubblica islamica nella lotta all'Isis, puntando alla riduzione dei suoi arsenali balistici e l'indebolimento interno attraverso le sanzioni. Washington l'ha definita la strategia della «massima pressione» e Teheran ha risposto con quella della «massima resistenza». Dall'inizio di questo percorso, ovvero dal maggio del 2018, è iniziata una escalation di tensioni tra i due Paesi fatta di raid missilistici, abbattimenti di droni, sequestri di petroliere attacchi ai pozzi petroliferi e conflitti per procura combattuti in Paesi terzi. A partire dallo Yemen, dove è in corso una guerra che dura da quasi 5 anni e che vede da una parte gli Houthi, i ribelli filo-sciiti, e dell'altra una coalizione di 17 Paesi capitanati da Arabia Saudita ed Emirati ai quali l'America ha garantito intelligence, armamenti e trainer, in particolari "Berretti verdi" inviati per addestrare all'uso di armi sofisticate. Salvo poi fare un parziale passo indietro dinanzi alle tante, troppe vittime civili causate dai bombardamenti a tappeto della coalizione guidata da Riad. 
Un altro terreno di scontro è la Siria teatro di raid da parte delle forze Usa, ma soprattutto israeliane, contro obiettivi che facevano capo o che erano gestiti dai Pasdaran o Hezbollah. Sono inoltre non pochi a sostenere che il ritiro degli Usa dalla Siria sia stato deciso anche dietro l'assicurazione di Erdogan di esercitare pressioni sulle forze siriane. 
C'è infine l'Iraq dove le Unità di Mobilitazione popolare (Hashd al-Shaabi) vicine al Quds iraniano hanno più volte colpito obiettivi Usa causando qualche giorno fa la morte di un contractor. Episodio che ha provocato la risposta dura di Trump pronto a colpire le milizie create dal potente generale iraniano Qassem Soleimani. A cui, probabilmente, ne seguiranno altre, anche perché le immagini di Baghdad hanno evocato quelle dell'attacco all'ambasciata Usa di Teheran avvenuto sull'onda della rivoluzione khomeinista, una ferita ancora aperta per gli Usa. Ieri il leader iraniano Ali Khamenei ha detto a Trump: «Accidenti a te, ragiona. Se decidiamo di combattere contro un Paese lo facciamo esplicitamente». 
È chiaro che per gli Usa un conflitto diretto con l'Iran sarebbe rischioso. Ed è forse per questo che Trump dopo aver minacciato Teheran di far pagare «un prezzo elevato», sull'ipotesi di un attacco ha aggiustato il tiro: «Non vedo la possibilità che accada, adoro la pace». Ma è anche vero che l'inquilino della Casa Bianca piace bluffare ed è altrettanto vero che la sua amministrazione sia determinata a portare avanti la guerra «tiepida» con Teheran, sebbene questa rischi di trascinarlo in conflitti collaterali a bassa intensità.

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