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La Stampa Rassegna Stampa
21.12.2019 Israele, laboratorio delle serie tv
Analisi di Ariela Piattelli

Testata: La Stampa
Data: 21 dicembre 2019
Pagina: 22
Autore: Ariela Piattelli
Titolo: «Israele, la fabbrica delle serie tv»
Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 21/12/2019, a pag.22, con il titolo "Israele, la fabbrica delle serie tv", il commento di Ariela Piattelli.

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Ariela Piattelli

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Sulla lavagna della sala riunioni c'è scritto «Buongiorno. Guardiamo lontano», e attorno un collage di parole, con nomi di persone, e frecce che si rincorrono. Siamo a Tel Aviv, negli uffici di Keshet, il principale Media Group d'Israele, che nel produrre format si posiziona tra i primi 10 al mondo. Qui sono nate molte serie tv, da Hostages, When Heroes Fly, a Hatufim, poi diventata Homeland negli Stati Uniti e altrove. Mentre sullo schermo scorrono le immagini della versione di Hostages per l'India, per cui anche l'emittente Yes sta preparando il remake di Fauda, cerchiamo di capire il «miracolo» delle serie tv israeliane e il loro slancio internazionale. Sono passati 15 anni da quando lo sceneggiatore Hagai Levi ebbe l'idea di mettere in una stanza due sedie e due attori per In Treatment, trasmessa dall'emittente locale HOT e poi adattata in decine di Paesi, dando il via al successo globale della serie tv «made in Israel». «Nei miei progetti cerco di abbattere pregiudizi, e con In Treatment volevo sfatare alcuni miti sulla terapia psicoanalitica», ci spiega Levi, che quest'anno ha fatto per HBO Our Boys, una miniserie sulla storia del rapimento e l'uccisione di tre ragazzi israeliani e uno palestinese: «Quello che succede in Israele è sempre eccezionale. Ma il crimine di odio, co La tradizione letteraria dell'ebraismo è complice del fenomeno assieme alle condizioni geopolitiche: il conflitto è da sempre ingrediente fondamentale della drammaturgia Nel Paese è più facile produrre e costa meno che altrove me quello in Our Boys, succede ovunque: quindi la storia è universale», conclude Hagai. «Qui c'è gente che arriva da tutto il mondo, e l'obiettivo è produrre format che piacciano a tutti - spiega Kelly Wright che per Keshet è vice presidente alla distribuzione internazionale -. Il nostro pubblico è composto da varie identità culturali. Ció fa sì che le serie siano di per sé già internazionali. Le storie sono globali appena nascono». Adesso negli Stati Uniti ci sono due grandi compagnie che vogliono riadattare When Heroes Fly: «Ebbi io l'idea di realizzarla - racconta Kami Ziv, ai vertici delle serie tv per l'emittente -, ho letto un libro, l'ho dato allo sceneggiatore Omri Givon, che è tornato da me dopo due settimane convinto di scriverla. La serie parla anche della guerra in Libano, ed Omri l'ha fatta da soldato, forse ha voluto scriverla anche per questo. Gli sceneggiatori israeliani hanno talento, scrivono storie personali, che hanno a che fare con loro stessi e con la società, ma noi qui facciamo televisione, quindi è importante che scrivano con una grammatica televisiva». Location di ogni tipo In questi giorni l'emittente HOT sta trasmettendo la nuovissima L'Attaché, che inizia a Parigi durante l'attentato del Bataclan, basata sulla vera storia dello sceneggiatore e regista Eli Ben David, e negli United Studios di Herzliya si girano i nuovi episodi di Taagad, la storia di giovani soldati, in Israele andata in onda su Yes e di cui la Paramount ha già pronto un remake per gli Usa. «Israele è da molto tempo un'isola felice della serialità», commenta lo sceneggiatore Stefano Sardo, che ha scritto tra gli altri 1994 e l'adattamento di In Treatment per l'Italia. Lui è a Tel Aviv come mentore per un progetto di coproduzione Israele-Francia.

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«La grande tradizione letteraria dell'ebraismo è complice del fenomeno della serie israeliane - continua -, ma c'è anche il fatto che per le condizioni geopolitiche e socioculturali, è molto presente la dimensione del conflitto, ingrediente fondamentale della drammaturgia». Sulla strada per Gerusalemme, ci fermiamo a Beit Jimal, nota come la «Toscana d'Israele», dove si fa l'olio e si gira Palmach, una serie per ragazzi ambientata nel 1946: un gruppo di teenager ebrei lotta perla libertà, e si prepara nella Palestina del mandato britannico a dare filo da torcere agli inglesi; una storia di fantasia interpretata da ragazzini che si mescola a personaggi del calibro di Rabin, Begin e Shamir. «Ci sono ragioni oggettive alla base del successo nell'audiovisivo - dice Hila Pachter, vice presidente alle relazioni internazionali della Ananey Communications, che produce Palmach-. Produrre qui è più facile, e costa meno che altrove. In più da Nord a Sud il Paese offre location di ogni tipo, e il clima permette di girare tutto l'anno». Arrivati a Gerusalemme entriamo nella Ma'aleh School of Television, Film and Arts, ci studiano cinema i religiosi, gli orto- dossi. Qui si è diplomato Ori Elon, che con Yehonatan Indursky ha creato e scritto Shtisel, la serie sugli ebrei ortodossi di Gerusalemme su piattaforma Netflix. Mentre una signora gli regala una rivista turca con in copertina il protagonista Michael Aloni, Elon ci spiega come sia possibile che un prodotto così radicato nella società israeliana possa aver conquistato un buon numero di spettatori internazionali: «Spesso è più facile vedere serie tv su cose che non conosci - dice - perché sei curioso e vuoi conoscere ciò che è diverso da te. Tutti qui sono stranieri, perché tutti sono diversi da te. Anche per questo Shtisel, in cui Gerusalemme è praticamente un personaggio, ha avuto successo». In Israele ci sono circa venti scuole di cinema e tv, «un numero enorme in proporzione agli abitanti», commenta Laurence Herszberg, la direttrice di Series Mania, un prestigioso festival internazionale che si tiene in Francia e che per il terzo anno ha piazzato gli israeliani sul podio. «Oltre alla formazione, la ragione del successo di queste serie è la capacità del popolo ebraico di raccontare storie, - conclude - e il fatto che tutto quello che accade nel Paese è straordinario, quindi ogni evento diventa fonte di ispirazione».

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