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La Stampa Rassegna Stampa
28.10.2019 La fine del Califfo/2
Editoriale di Maurizio Molinari, due servizi di Giordano Stabile

Testata: La Stampa
Data: 28 ottobre 2019
Pagina: 1
Autore: Maurizio Molinari - Giordano Stabile
Titolo: «Quel rifugio sotto il naso di Erdogan - Blitz americano contro Al Baghdadi: 'Correva e piangeva, poi si è ucciso' - Dal carcere di Abu Ghraib alla jihad. L'imam che sognava di essere Califfo»
Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 28/10/2019, a pag.1-25, con il titolo "Quel rifugio sotto il naso di Erdogan", l'editoriale del direttore Maurizio Molinari; a pag. 8 e 11, con i titoli "Blitz americano contro Al Baghdadi: 'Correva e piangeva, poi si è ucciso' ", "Dal carcere di Abu Ghraib alla jihad. L'imam che sognava di essere Califfo", due servizi di Giordano Stabile.

Ecco gli articoli:

Maurizio Molinari: "Quel rifugio sotto il naso di Erdogan"

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Maurizio Molinari

I dettagli finora trapelati sull'eliminazione di Abu Bakr al-Baghdadi alzano il velo su alcune novità di rilievo sullo scacchiere del Medio Oriente. La prima viene dal luogo dove il "Califfo del terrore" si rifugiava perché il villaggio di Barisha si trova a ridosso della frontiera turca, in un'area controllata dai miliziani di Hayat Tahrir al-Sham - costola di Al Qaeda - nella provincia siriana di Idlib, ultima roccaforte jihadista assediata dalle truppe di Bashar Assad ma con i confini presidiati da almeno cinque "punti di osservazione militare" turchi. Ovvero, il sanguinario leader di Isis si nascondeva in un angolo della Siria dove gruppi fondamentalisti sunniti rivali combattono assieme contro Assad, vengono bombardati dai russi e vedono nella Turchia l'unico possibile difensore. E ancora: quando Erdogan tratta con Putin sul futuro assetto della Siria considera Idlib una propria pedina territoriale. Al pari della provincia di Afrin, occupata nel gennaio 2018, e del confine con il Rojava curdo invaso a metà mese. Da qui l'interrogativo sul ruolo di Erdogan: fonti militari turche assicurano di aver dato "due decisive informazioni di intelligence" agli Usa sul rifugio di Al-Baghdadi - non a caso Trump ha ringraziato Ankara - ma fonti siriane aggiungono che "il Califfo era li perché stava per fuggire in Turchia" o forse era arrivato a Idlib attraversando il territorio turco. Insomma, come il leader di Al Qaeda, Osama bin Laden, venne eliminato nel 2011 nella città pakistana di Abbottabad facendo emergere le complicità di ambienti militari di Islamabad, così Abu Bakr al-Baghdadi è stato ucciso in un'area siriana sotto influenza turca, riproponendo le forti ambiguità di Ankara sulla lotta a Isis che risalgono a quando il Califfato faceva transitare i foreign fighters da Istanbul e si finanziava vendendo illegalmente petrolio a cavallo del confine turco-siriano. C'è poi l'aspetto tattico del blitz di Barisha perché - secondo la ricostruzione fatta da Trump - è durato almeno due ore, ha visto l'eliminazione di molti jihadisti ed è terminato solo quando al-Baghdadi, fuggito dentro un tunnel, si è fatto saltare in aria. E' stata dunque una vera e propria battaglia ingaggiata dai reparti speciali Usa, ben diversa dal raid di appena 38 minuti ad Abbottabad da parte dei Navy Seals. Ciò significa che Idlib è oggi un autentico "terreno nemico", controllato dai jihadisti alla stregua di un mini-Stato. Da qui il terzo elemento, più strategico: le forze Usa hanno informato Mosca dell'incursione e si sono giovate di informazioni raccolte da Turchia, Siria, Iraq e milizie curde, ritirandosi poi attraverso "la base in un Paese amico" forse la Giordania. E' stata dunque, di fatto, un'operazione multilaterale che il Pentagono - nonostante la superiorità tecnologica e militare - non avrebbe potuto condurre da solo, facendo diventare evidente il progetto che Trump espose sin dall'indomani dell'elezione nel 2016: siglare con la Russia un patto anti-terrorismo per battere Isis e al tempo stesso poter ridurre la presenza Usa in Medio Oriente. E' uno scenario che l'eliminazione di al-Baghdadi rafforza, con la possibilità di un riassetto del Medio Oriente arabo, a oltre cento anni dagli accordi anglofrancesi di Sykes-Picot, fra Paesi alleati degli Usa (Iraq, Giordania) e della Russia (Siria). Ultimo, ma non per importanza, il linguaggio usato dal presidente americano: affermare che al-Baghdadi "è morto come un cane" significa adoperare il linguaggio - probabilmente scelto dagli esperti di lotta al terrorismo - delle tribù del deserto contro i propri nemici per delegittimare la memoria del loro Califfo e far capire ai jihadisti ancora in circolazione che l'America sa essere più feroce di loro.

Giordano Stabile: "Blitz americano contro Al Baghdadi: 'Correva e piangeva, poi si è ucciso' "

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Giordano Stabile

Gli uomini della Delta Force e dei Ranger aspettavano da settimane il via libera nella base a Erbil, Iraq settentrionale. Per due volte l'operazione «Kayla Mueller» era stata sospesa all'ultimo minuto. Uno spostamento imprevisto dell'obiettivo, poi l'offensiva turca nel Nord-Est della Siria. Il pensiero andava in continuazione al blitz di otto anni prima. Maggio 2011, il raid sul compound di Osama bin Laden. Stessi uomini, paesaggi simili. Questa volta era tutto più complicato. Oltre settecento chilometri da percorrere a bassa quota, con gli elicotteri Black Hawk, su un Paese in guerra, sopra una dozzina di eserciti e milizie dai comportamenti imprevedibili. L'obiettivo è stato individuato in un villaggio di mille abitanti, nel posto più sperduto della Siria nordoccidentale, Barisha, nella valle delle «città fantasma», come viene chiamata in arabo. Rovine antiche, chiese bizantine abbandonate, colline impervie, crepacci e oliveti. Il compound, circondato da un alto muro di cinta, ricorda quello di Bin Laden ad Abbottabad. Ma l'ultimo nascondiglio di Abu Bakr al-Baghdadi, come aveva scoperto l'Intelligence, è anche dotato di una rete di tunnel, a rendere il blitz ancora più difficile. È quasi sera in Iraq, mattina a Washington, quando arriva l'ordine. Otto Black Hawk partono in fila, si gettano dentro il sole al tramonto, verso Occidente. A bordo ci sono una cinquantina di uomini. Sono coperti da una scorta di caccia e il Pentagono avverte i russi, i turchi, i siriani che «stanno arrivando». A mezzanotte e mezza sono sopra Barisha. Comincia una battaglia di oltre 120 minuti. L'ultima del «Califfo», deciso a resistere fino all'ultimo respiro. Al-Baghdadi è lì, nella provincia di Idlib, da «almeno due mesi». La prima dritta alla Cia è stata data dai guerriglieri curdi delle Sdf a marzo, subito dopo la cattura di Al-Baghuz, l'ultima città del Califfato a cadere: «Andrà verso Idlib, perché lì ha molti amici». Anche l'Intelligence irachena dà una mano, stringe il cerchio sui famigliari iracheni. Finché la pista Idlib viene confermata. Il villaggio di Barisha è ad appena cinque chilometri dal confine con la Turchia. Il Califfo ha portato con sé il suo vice, Abu Said al-Iraqi, e il portavoce Abul-Hasan Al-Muhajir, anch'egli ucciso. È protetto dal capo di un altro gruppo jihadista, Abu al-Bara al-Halabi. Il compound, a differenza di quello di Bin Laden, è pieno di uomini armati. Appena gli elicotteri cominciano a girare attorno, per trovare i punti di attacco, è un inferno di fuoco. Le squadre mettono piede a terra. Fanno saltare un pezzo del muro di cinta. Poi aprono varchi nell'edificio principale con potenti detonazioni che fanno crollare parti delle pareti, perché le porte principali sono piene di trappole esplosive. Alcuni ranger vengono feriti di striscio. I jihadisti vengono abbattuti uno dopo l'altro, mentre i commando vanno stanza per stanza, per scovare l'obiettivo. Il problema è che però ci sono anche una quindicina di bambini, donne. C'è il rischio di un massacro. Il Califfo ripiega verso l'ingresso del tunnel che corre sotto il compound. Ha indosso il giubbetto esplosivo. Anche una delle mogli lo indossa. Prova a farsi saltare, è abbattuta in una gragnuola di colpi. Al-Baghdadi è ora nella galleria, braccato dai cani, circondato da tre dei suoi sei figli, ma senza più via d'uscita. È armato, forse con il kalashnikov dello stesso modello quello di Bin Laden, mostrato nel suo ultimo video. Una cane dell'unità K9 viene colpito. Il Califfo ha sempre detto che l'unica sua aspirazione era «il martirio». Adesso ha la sua occasione, davanti all'odiato nemico americano. Sono gli ultimi istanti della vita. I ricordi scorrono come in un film. Il terrore che suscitava il suo nome da Falluja ad Aleppo, dalle montagne curde al deserto di Palmira, quando le colonne nere dello Stato islamico marciavano inarrestabili. E poi le capitali europee paralizzate dalla paura, il mondo intero sgomento davanti alla forza del Califfato risorto. Le distese di cadaveri, gli eretici sciiti, cristiani, gli atei curdi, i «politeisti» yazidi massacrati a decine di migliaia, le schiave vendute al mercato di Mosul. Anche le sue schiave, compresa Kayla Mueller, la volontaria americana, rapita, abusata e torturata per due anni. Il «comandante dei fedeli» deve morire in battaglia, da guerriero, dare l'esempio. Ha atteso il momento, ma la mente non lo sorregge. Grida, piange, singhiozza. Poi tira l'innesco a strappo. L'esplosione spazza via tutto, fa crollare il tunnel. Ci vogliono ore a rimuovere le macerie. Gli esperti forensi raccolgono i pezzi del corpo, prelevano il Dna. In quindici minuti arriva la conferma che è lui. I resti vengono chiusi in un sacco con la cerniera a zip. Caricati su un elicottero e portati via. Il Califfato è finito, resta soltanto l'orrore.

Giordano Stabile: "Dal carcere di Abu Ghraib alla jihad. L'imam che sognava di essere Califfo"

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Abu Bakr al Baghdadi

Alla moschea Haji Zaydan nel quartiere di Tobchi, Baghdad, lo riconoscevano per la sua voce calda, sonora, quando lanciava il richiamo alla preghiera. Era amato dai ragazzi, che tediava con interminabili sessioni di recitazione del Corano, seguite però da partite a pallone, l'altra passione del neanche trentenne Ibrahim Awwad Ibrahim al-Badri. Il futuro Califfo, terrore della Mesopotamia, morto con le mani grondanti del sangue di decine di migliaia di vittime innocenti, allora non aveva assunto il nome di battaglia. Era asciutto e aveva un dribbling inarrestabile, tanto da essere soprannominato Messi. Una facciata. Ibrahim pratica già l'arte della taqqiyya, la dissimulazione islamica. Si prepara alla conquista del mondo, a vendicare l'orgoglio musulmano ferito, con un brutalità senza precedenti. Il padre, insegnante anche lui nella città natale di Samarra, lo aveva indirizzato agli studi religiosi. Ibrahim è taciturno. Studia tutto il giorno, bacchetta i fratelli che non seguono alla lettera la sharia. È nato nel 1971. All'inizio degli anni Novanta si trasferisce a Baghdad per frequentare l'università e poi il prestigioso istituto «Saddam Hussein». Il sanguinario dittatore incrocia più volte il suo destino. Dopo la guerra con l'Iran e il primo conflitto del Golfo, il raiss ha imposto una svolta religiosa, salafita, chiuso night club e bordelli, e rilanciato gli studi islamici. La famiglia Al-Badri ha rapporti con il partito Baath ed è molto conservatrice. Una combinazione perfetta per aprirgli le porte del mondo accademico. È un mondo dove però sono rientrati i Fratelli musulmani. Al-Baghdadi li contatta, si sposa due volte, con Asma e poi con Isra, ha sei bambini. Alle nozze di un amico monta una scenata perché vede due ragazzi non sposati baciarsi. Ha abbracciato la via più fanatica del salafismo, quella jihadista, i Fratelli musulmani gli sembrano «tutte chiacchiere e niente azione». Bisogna combattere. La resa dei conti fra Saddam Hussein e gli americani gli fornisce l'occasione. Nel 2003 si unisce alla guerriglia sunnita contro le truppe di occupazione. L'anno dopo è a Falluja. È catturato, detenuto ad Abu Ghraib e a Camp Bucca, dove stringe rapporti con la futura leadership di Al-Qaeda in Iraq, e poi dello Stato islamico in Iraq. I capi jihadisti, il giordano Abu Musab Al-Zarqawi, poi Abu Ayyub al-Masri, infine Abu Omar al-Qurashi, vengono tutti uccisi in raid americani fra il 2006 e il 2010. Al-Baghdadi assume la guida dell'Isi. Nel 2011 espande il gruppo in Siria, dove infuria la guerra civile. Nel 2013 fonda lo Stato islamico in Iraq e in Siria, l'Isis, una sigla destinata a superare in orrore il nome di Al-Qaeda. Fra la fine del 2013 e l'inizio del 2014 conquista Raqqa e metà della Siria, Falluja e la provincia dell'Anbar in Iraq. Nel giugno del 2014 entra a Mosul, la seconda città irachena, e rifonda il califfato islamico, abolito da Ataturk nel 1924. Il 5 luglio 2014 tiene il suo unico discorso pubblico nella grande moschea Al-Nuri di Mosul. Lo Stato islamico si espande ancora ma, dalla metà del 2015, subisce la controffensiva di America, curdi siriani e iracheni, governo iracheno, la Siria appoggiata da Russia e Iran. Tutto il mondo si coalizza, ancor più dopo gli attentati a Parigi del 13 novembre del 2015. Il califfato viene distrutto. Cade Mosul, Raqqa, il Califfo si rifugia in una stretta striscia di territorio lungo l'Eufrate, al confine fra Siria e Iraq. Finché il 29 marzo scorso anche l'ultima città, Al-Baghuz, è riconquistata dai curdi. Al-Baghdadi è sfuggito a quattro raid, è stato ferito almeno una volta, non ha un altro posto dove ritirarsi. La caccia si concentra nel deserto fra Siria e Iraq. L'arte della taqqiya lo aiuta di nuovo. Travestito attraversa la Siria, forse entra in Turchia, per poi ripassare il confine e trovare rifugio nella provincia di Idlib. Non è un terreno ospitale, in teoria. Nel 2013 vi aveva inviato il compagno d'armi siriano Mohammed al-Joulani a preparare il terreno del califfato. Ma un anno dopo Al-Joulani l'ha tradito, è rimasto fedele al capo di Al-Qaeda Ayman al-Zawahiri. I curdi sono convinti però che soltanto a Idlib il Califfo possa trovare rifugio. Conoscono l'oscillazione delle alleanze fra i gruppi jihadisti, un continuo rimescolamento di carte. C'è un gruppo, Hurras al-Din, che tiene aperto un ponte fra Al-Qaeda e l'Isis. L'indicazione è perfetta. Resta da capire come è stato trovato il compound. Una soffiata di una delle mogli, arrestata la scorsa estate, sostiene Baghdad. Oppure, secondo i curdi, c'è stato uno scambio fra Recep Tayyip Erdogan e Donald Trump: il via libera all'invasione del Rojava in cambio della localizzazione del califfo. Ma allora perché lanciare l'operazione dall'Iraq, quando in Turchia gli Usa dispongono della base di Incirlik, a soli 100 chilometri dall'obiettivo? Poco importa, il risultato è raggiunto.

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