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La Stampa Rassegna Stampa
20.08.2019 Hong Kong: la protesta contro la Cina continua
Cronaca di Francesca Paci, commento di Francesco Semprini

Testata: La Stampa
Data: 20 agosto 2019
Pagina: 11
Autore: Francesca Paci - Francesco Semprini
Titolo: «I filo-cinesi della città ribelle: 'Hong Kong ingrata con Pechino' - Trump avverte Xi Jinping: zero accordi se usate la violenza»
Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 20/08/2019, a pag. 11, con il titolo "I filo-cinesi della città ribelle: 'Hong Kong ingrata con Pechino' " il commento di Francesca Paci; con il titolo "Trump avverte Xi Jinping: zero accordi se usate la violenza", il commento di Francesco Semprini.

Ecco gli articoli:

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Francesca Paci: "I filo-cinesi della città ribelle: 'Hong Kong ingrata con Pechino' "

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Francesca Paci

Mettiamola così, parteggiare per il governo e dunque per la madrepatria non è solo questione di soldi, che, pure, a me non mancano». Chi parla è il proprietario di una decina di ristoranti di Hong Kong, ha passato i cinquant'anni e sta divorziando dalla moglie. Il lunedì è il giorno dell'appuntamento con il consulente psicologico che segue il suo caso. Non discute la potenza della mobilitazione di domenica, che, inverosimilmente, la polizia ha stimato non oltre le 150 mila persone. La gente c'era eccome, dice il signor C., ma il punto è un altro: «È comprensibile che i ricchi non guardino di buon occhio chi, manifestando, danneggia il business e in particolare quello con Pechino, così come parecchi poveracci costretti a sgobbare per un pezzo di pane considerano la lotta per la libertà un passatempo borghese. C'è però di più nell'ostilità che tanti come me provano per «i democratici». La democrazia è un falso mito, lo è anche quella americana sbandierata a Victoria Park, un gioco per tutti in cui alla fine comandano in pochi. E comunque, quand'anche esistesse davvero nel mondo occidentale, non è roba per la Cina, che infatti funziona benissimo anche senza. Chi protesta non conosce davvero l'America, dove io ho studiato, né la Cina, con cui lavoro. Sono accecati dall'odio verso il partito comunista e ignorano che la Cina è sviluppata, avveniristica e socialmente più equa di Hong Kong: nessun giovane lì stenta a pagare l'affitto della casa. Certo, c'è controllo e c'è censura politica, ma con i debiti compromessi si vive alla grande lo stesso». Per ragioni diverse da quelle degli attivisti, i «blu», come vengono chiamati dai «gialli» i filo-governativi, si espongono di malavoglia e meglio se in forma anonima. Nei giorni scorsi Kwok Chi-keung, leader del sindacato filo-Pechino degli impiegati delle ferrovie di Hong Kong, ha postato su Facebook un commento contro le proteste ed «è stato punito» con la pubblicazione dei suoi dati personali, vale a dire insulti e minacce, sia pur senza seguito.

La zona grigia Il giorno dopo il successo di Victoria Park poi, pochi hanno voglia di contraddire l'indiscutibile volontà di una gran fetta di concittadini. Da un sommario sondaggio off the records è possibile però abbozzare un identikit di quest'altra Hong Kong, indubbiamente minoritaria eppure influente. Si tratta in genere di persone over 50 e oltre, una fetta crescente della popolazione di Hong Kong che ha oggi in media quarant'anni. Sono benestanti e istruiti, in gran parte hanno studiato all'estero. Pur essendo facoltosi non hanno alcun problema con il partito comunista cinese che, sostengono, ha «portato il benessere in un Paese fino a trent'anni fa poverissimo». C'è anche chi argomenta che perfino Mao Zedong abbia fatto «tanto male perché in quel momento era l'unico modo per fa bene». Il tessuto sociale di Hong Kong è variegato. Secondo parecchi analisti «la protesta delle mascherine» conserva un consenso eccezionale, nonostante le sortite più sperimentali come l'appena lanciato boicottaggio dello shopping del weekend, Bye Buy Day HK, che, a detta dell'economista della Chinese University Terence Chong Tai-Leung, «potrebbe danneggiare molte persone». La percezione diffusa è che diversamente dal 2014 in ballo non ci sia la fuga in avanti ma il ritorno indietro. C'è però uno zoccolo duro di filo-Pechino «pragmatici» come il signor C.. E c'è una zona grigia in cui si mescolano le istanze dei tanti che pur non amando la governatrice Carrie Lam (la sua popolarità è stimata sotto al 30%) preferiscono lo status quo al salto nel buio. «Non è che dissenta dai manifestanti, anzi, ma se invece di bloccare la città organizzassero un massiccio sciopero della fame in Victoria Park li apprezzerei di più rispetto a quando bloccano i treni della metro», ammette un avvocato che non ha mai partecipato alle proteste. Suo cognato è un commissario, uno dei 30 mila poliziotti hongkonghesi un tempo amati dalla comunità e oggi, dopo la repressione delle ultime settimane, detestati al punto da essere chiamati «hak se wui», gangster in cantonese. Lo sente solo al telefono, perché in due mesi e mezzo ha avuto pochissimi giorni liberi: «Il mondo vede solo gli ombrelli del 2014, quelli ci sono ancora ma adesso gli attivisti hanno tirato fuori anche mattoni e bulloni». La violenza è per «la zona grigia» la mano che può cambiare le carte in tavola e l'esperto di ordine pubblico Lawrence Ho Ka-ki avverte che nulla come la fine della fiducia sociale reciproca porta all'escalation: il popolo di Victoria Park lo sa bene.

Francesco Semprini: "Trump avverte Xi Jinping: zero accordi se usate la violenza"

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Francesco Semprini


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Xi Jinping

«Nessun accordo in caso di una nuova Tiananmen». È categorico Donald Trump nell'affrontare la questione delle proteste di Hong Kong e l'ipotesi di una risposta repressiva di Pechino. «Sono per la democrazia, sono per la libertà. Mi piacerebbe vedere che tutto si risolvesse in modo umano», afferma il presidente americano, secondo cui «sarebbe assai più difficile per me fare un accordo commerciale» nel caso in cui il collega cinese Xi Jinping «facesse qualcosa di violento a Hong Kong». Il timore dell'amministrazione americana è che il regime di Pechino replichi la risposta violenta di trent'anni fa esatti quando i carri armati soffocarono nel sangue le proteste di Piazza Tiananmen. «La Cina vuole un accordo. Vedremo cosa succederà», dice prudentemente Trump ribadendo di non essere ancora pronto a un'intesa con Pechino sul nodo scambi. Mentre in merito a eventuali contatti diretti con Xi, il presidente non si sbilancia: «Non posso parlare». La vicenda di Hong Kong si inquadra infatti nel più ampio confronto tra Washington e Pechino sulle dispute commerciali e l'applicazione di nuovi dazi, tra settembre e dicembre, ai restanti 300 miliardi di dollari di merci «made in China» ancora esenti da misure sanzionatorie. Argomento affrontato dal presidente anche con l'amministratore delegato di Apple, Tim Cook, poco prima di tornare alla Casa Bianca, dopo la pausa estiva in New Jersey, da dove seguirà ancora più da vicino le trattative con Pechino in vista del nuovo round di mediazioni in programma a Washington in settembre. Oltre alla questione dei dazi, sul negoziato pesa anche la vicenda Huawei, che è «una minaccia alla sicurezza nazionale». «Siamo in un sorta di guerra tecnologica» con la Cina, aggiunge mostrandosi però cautamente ottimista, il consigliere economico Larry Kudlow. Parole che anticipano di qualche ora la doppia mossa americana di estendere di altri 90 giorni la sospensione del bando per Huawei, il provvedimento voluto dall'amministrazione Trump per proibire al colosso tecnologico cinese di acquistare componenti e attrezzature dalle aziende americane. Aggiungendo però 45 nomi di imprese e uomini d'affari legati a Huawei nella lista nera relativa al futuro bando, in una sorta di bastone e carota col quale Trump risponde alla richiesta di Pechino a Washington di «passare dalle promesse ai fatti» e allentare le restrizioni sulle vendite delle società Usa al colosso tlc del Dragone.

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