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La Stampa Rassegna Stampa
01.07.2019 Sudan: quando l'islam fa strage di islamici
Cronaca di Giordano Stabile

Testata: La Stampa
Data: 01 luglio 2019
Pagina: 1
Autore: Giordano Stabile
Titolo: «I sudanesi sfidano i militari e le pallottole: 'Manifesteremo finché non andranno via'»

Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 01/07/2019, a pag.1-11, con il titolo "I sudanesi sfidano i militari e le pallottole: 'Manifesteremo finché non andranno via' " la cronaca di Giordano Stabile.

Khartoum, la non dimenticata capitale sudanese dove la Lega Araba si era riunita per dichiarare guerra eterna a Israele con i famosi tre 'no', oggi è sulle pagine dei giornali di tutto il mondo a causa del regime dittatoriale che non solo vuole la guerra contro Israele ma spara sulla folla che chiede la fine del regime causando più di 100 morti e 700 feriti. Il Sudan è un esempio di dittatura islamista che oggi interessa anche i media occidentali solo per la strage di ieri. Altrimenti l'interesse è zero, sempre per la solita solfa protezionistica dell'islam che consiglia ai media occidentali di non mettere il naso nei loro regimi criminali.

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Giordano Stabile

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Le proteste in Sudan

Manca appena mezz’ora al grande appuntamento, alla «marcia del milione» organizzata dall’opposizione sudanese. È mezzogiorno e mezzo e i quartieri centrali di Khartoum sembrano ancora addormentati, mentre sulle grandi vie di scorrimento il traffico si è diradato all’improvviso. Attorno, nelle stradine alberate e polverose, fervono i preparativi. Ragazzini sbucano dai cortili e cominciano ad ammucchiare pietre, tronchi, per bloccare l’accesso alle auto. Nelle moschee la preghiera di mezzogiorno sta per finire. Di colpo si formano colonne di gente, spuntano cartelli, bandiere. I manifestanti si mettono in marcia, coordinati. Tutte le colonne confluiscono verso la grande arteria di Africa Road. Diventano un fiume e gli slogan scanditi battono l’aria rovente, che le nubi rendono ancora più spessa. È l’urlo del Sudan, un tuono di rabbia e indignazione rimasto soffocato da quel maledetto 3 giugno, quando i berretti rossi del generale Mohamed Hamdan Dagalo, detto «Hemeti», hanno massacrato centosette persone al sit-in davanti al quartier generale delle Forze armate. Ora gridano tutti in coro e camminano sempre più veloci, quasi in corsa. «Yasqot Hemeti», «via Hemeti», «yasqot taleta», «via anche il terzo», dopo il dittatore Omar al-Bashir cacciato lo scorso 9 aprile, e dopo il suo successore Ibn Aoff, durato appena pochi giorni. Ci sono tanti giovani, e donne coi loro veli colorati. Più il fiume si ingrossa, più prende coraggio. La polizia agli incroci resta immobile, i berretti rossi per ora non si vedono. Per raggiungere la testa del corteo bisogna accelerare in macchina attraverso le strade sterrate nei quartieri di Burri e Sahafa. Le signore anziane stanno sedute davanti alle case, fanno segno di vittoria con due dita. Khartoum è una delle città più recenti, in Medio Oriente, con appena due secoli di storia, ma queste strade appaiono battute dal tempo, modellate dalle piene del Nilo che hanno alzato il livello della careggiata fino al livello delle finestre degli edifici più antichi. Quando si sbuca a metà di Africa Road la vista è impressionante. Dritta, con otto corsie in totale, corre per chilometri ed è stracolma. Il fiume ora si muove lento. I fuoristrada delle forze di sicurezza - i berretti rossi, ovvero le Rapid Support Forces, e gli uomini dell’Intelligence, o Niss - se ne stanno appartati ma incutono timore. Sono armati con mitragliatrici, lanciarazzi, persino cannoni da 105 millimetri. «Non ci fanno paura», dice Mohammed, 28 anni, impiegato in una compagnia telefonica. Era al sit-in quel 3 di giugno, ha visto i suoi amici cadere sotto le pallottole: «Correvo, mi giravo, e non c’erano più: ho vissuto tutta la mia vita sotto una dittatura, non me ne starò chiuso in casa, marceremo finché i militari non se andranno». Lo slogan è martellante. «Madanìa, madanìa», cioè governo civile, governo civile. È la richiesta che l’opposizione, riunita nelle Forze per la liberà e il cambiamento, ribadisce dalla deposizione di Al-Bashir. Finora ha sbattuto contro il muro di gomma e di pallottole della giunta che ha sostituito il raiss. L’ultima proposta, mediata dall’Unione africana e dall’Etiopia, è stata bocciata dai militari sabato. Prevedeva un Consiglio presidenziale di 15 membri e un’Assemblea di 300, che sarebbe stata dominata dall’opposizione. È un movimento composito, dagli islamici ai comunisti, coagulato attorno ad gruppi di attivisti della società civile, come la Sudanese professionals association. La giunta ha cercato di tagliarle le gambe con il blocco dei social media, strumento principale di organizzazione, e poi con il bagno di sangue del 3 giugno. Sabato era stato le stesso «Hemeti» a lanciare moniti e minacce. Il generale numero due della giunta, già protagonista della repressione in Darfour con i suoi «Diavoli a cavallo», poi trasformati nei «berretti rossi», aveva avvertito che non avrebbe «tollerato nessun atto di vandalismo» e che ogni vittima sarebbe rimasta sulla «coscienza dell’opposizione». Intimidazioni, per convincere la gente a restare a casa. La marcia del milione ieri le ha spazzate via. Nel primo pomeriggio Africa Road ribolle. Il grosso del corteo si è ammassato davanti alla casa di uno dei «martiri» del 3 giugno. Senza WhatsApp e Messanger, le notizie circolano attraverso chiamate sui telefonini. I morti di ieri sarebbero cinque, tra loro un trentacinquenne colpito al petto nel quartiere di Atbara. I militari diffondono anche fake news, come quella di un cecchino che avrebbe «colpito tre uomini delle Rapid Support Forces». Un’invenzione per far degenerare la protesta, mentre colonne di fuoristrada bloccano il corteo primi che si avvicini troppo al quartiere generale dell’esercito. Il generale Dagalo, «Hemeti», non vuole però forzare la mano. Come spiega un fonte locale, «può contare sull’appoggio di Arabia Saudita e degli Emirati arabi, ma non può metterli troppo in imbarazzo». La sera cala presto, verso le sei e mezza. Le strade si svuotano. I sudanesi hanno dimostrato di credere ancora nella loro rivoluzione. Ora vogliono assaggiare il frutto più dolce, «hurriya», libertà.

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