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La Stampa Rassegna Stampa
17.06.2019 Dal Golfo allo Yemen, questa è la guerra di aggressione dell'Iran in Medio Oriente
Cronaca di Giordano Stabile, Francesco Semprini intervista il terrorista Houthi filo-Iran, commento di Gianni Vernetti

Testata: La Stampa
Data: 17 giugno 2019
Pagina: 10
Autore: Giordano Stabile - Francesco Semprini - Gianni Vernetti
Titolo: «Petroliere colpite, Riad accusa l'Iran: 'Responsabile degli attentati' - 'Sauditi i veri aggressori nel Golfo. Risponderemo con i nostri missili' - Quella linea che unisce la guerra in Yemen agli attacchi alle petroliere»

Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 17/06/2019, a pag.10, con il titolo "Petroliere colpite, Riad accusa l'Iran: 'Responsabile degli attentati' " la cronaca di Giordano Stabile; a pag. 11, con il titolo 'Sauditi i veri aggressori nel Golfo. Risponderemo con i nostri missili' l'intervista di Francesco Semprini a Seif al Washli, capo dei terroristi Houthi filo-iraniani; a pag. 33, con il titolo "Quella linea che unisce la guerra in Yemen agli attacchi alle petroliere", il commento di Gianni Vernetti.

L'Iran persegue una strategia aggressiva e espansionistica che coinvolge l'intero Medio Oriente, dal Libano alla Siria, dallo Yemen all'Iraq, come chiarisce Gianni Vernetti. Lo stesso regime degli ayatollah non solo sostiene il terrorismo islamico, ma corre verso la costruzione di armi nucleari. Per fermare Teheran è indispensabile una linea chiara che non ceda ai ricatti e alle pressioni del regime fondamentalista sciita.

Ecco gli articoli:

Giordano Stabile: "Petroliere colpite, Riad accusa l'Iran: 'Responsabile degli attentati' "

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Giordano Stabile

 

L’Arabia Saudita si schiera a fianco dell’America e accusa l’Iran di essere responsabile degli attacchi alle petroliere nel golfo dell’Oman. Lo fa con l’uomo forte del regno, il principe ereditario Mohammed Bin Salman, che però precisa di «non volere una guerra».
La linea rossa, sottolineata anche dal segretario di Stato americano Mike Pompeo, è la libertà di navigazione attraverso lo Stretto di Hormuz, l’obiettivo di quello che sembra sempre più un attacco dimostrativo per mettere in evidenza quanto sia fragile l’arteria energetica del mondo, e quali rischi correrebbe l’economia globale in caso di attacco alla Repubblica islamica.
Sono da inquadrare in questo contesto le dichiarazioni del principe al quotidiano panarabo Asharq Al-Awsat, da sempre vicino alla casa reale saudita. Mbs sottolinea come «il regime iraniano non ha rispettato la presenza del primo ministro giapponese Shinzo Abe a Teheran e ha risposto ai suoi sforzi diplomatici attaccando una sua petroliera». Poi ha avvertito: «Non vogliamo una guerra nella regione. Ma non esiteremo a fronteggiare alcuna minaccia per il nostro popolo, la nostra sovranità, la nostra integrità territoriale e i nostri interessi vitali». Soprattutto il regolare flusso delle esportazioni di petrolio, che la comunità internazionale deve proteggere con «una presa di posizione decisa».
Concetto ribadito dal ministro dell’Energia Khalid al-Falih che ha chiesto una «risposta rapida alle minacce» per garantire «la stabilità dei mercati e la fiducia dei consumatori». Gli attacchi, con esplosivi posti sopra la linea di galleggiamento delle navi, erano mirati a non fare vittime, né a causare un’onda nera sulle coste. Ma piuttosto a esporre le fragilità dei Paesi del Golfo che dipendono dalla strozzatura di Hormuz, dove passa un quinto del petrolio prodotto al mondo e un terzo di quello esportato via mare. È una partita anche psicologica e subito Pompeo ha rassicurato gli alleati e ribadito che gli Stati Uniti garantiranno «la libertà di navigazione nello Stretto, una sfida internazionale, decisiva per l’intero globo: intraprenderemo tutte le azioni necessarie, diplomatiche e di altro tipo».
Come già durante la guerra Iran-Iran negli anni Ottanta e poi ancora nel 2008, lo Stretto di Hormuz è al centro del braccio di ferro. Lo scorso febbraio il comandante dei Pasdaran Mohammad Ali Jafari ha avvertito che i suoi uomini erano in grado di bloccarlo «facilmente e per un tempo illimitato». Finché l’Iran può esportare il suo petrolio, ha precisato, «la via d’acqua rimarrà aperta», ma se l’Iran non potrà più vendere il suo greggio, allora «non potranno farlo neanche gli altri», cioè Arabia Saudita ed Emirati Arabi. I due Paesi dove si erano rifornite le navi attaccate giovedì e le altre quattro sabotare lo scorso 12 maggio. Il prezzo del petrolio è nel frattempo salito del 4 per cento mentre il costo delle assicurazioni per i mercantili diretti del Golfo è schizzato del 10 per cento.
Per inchiodare l’Iran serviranno però prove più convincenti. La giapponese Kokuta Courageous è arrivata nel porto emiratino di Sharjah, dove potrà essere esaminata. La norvegese Front Altair è ancora al largo dell’Iran, abbandonata, anche se l’incendio è stato domato. Finora, a parte Riad, soltanto Londra si è schierata senza remore con gli Usa. Il ministro della Difesa Jeremy Hunt ha detto che l’intelligence è «quasi sicura» che il responsabile sia Teheran e che «nessun altro avrebbe potuto farlo», anche perché si è trattato di un’azione da commando delle forze speciali di qualche esercito ben addestrato ed equipaggiato, fuori dalla portata di gruppi terroristici. Gli altri Paesi europei sono più prudenti. Per la Germania il video mostrato dagli americani venerdì «non è sufficiente», mentre il Segretario generale dell’Onu Antonio Guterres ha invitato a una «inchiesta internazionale».

Francesco Semprini: 'Sauditi i veri aggressori nel Golfo. Risponderemo con i nostri missili'

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Francesco Semprini

«L’unica aggressione è quella attuata dai sauditi ai civili yemeniti grazie al sostegno americano: continueremo a resistere e a combattere, ai loro raid risponderemo con i nostri missili». Seif al Washli, leader del consiglio di presidenza di Ansar Allah, la dirigenza dei ribelli Houthi in Yemen, consegna a «La Stampa» il suo messaggio nel momento in cui l’acuirsi delle tensioni nel Golfo persico «rischia di avere ricadute pericolose sulla nostra popolazione».
Ci racconta qual è, al momento, la situazione in Yemen?
«È ogni giorno più disastrosa, non solo da un punto di vista politico, ma da quello economico e umanitario. Non c’è cibo, mancano generi di prima necessità, medicinali, personale medico, la nostra gente deve fare i conti con la devastazione dei bombardamenti della coalizione saudita».
Sembrava fossero stati compiuti passi in avanti, specie nel porto strategico di Hodeidah, grazie alla mediazione dell’Onu...
«Non è cambiato molto. Da parte nostra abbiamo concesso alcuni spazi al personale delle Nazioni Unite nell’ambito di quel piano di pace che però i sauditi non stanno certo rispettando. Le nostre aspettative sull’operato Onu sono basse, sappiamo che possono fare poco specie dinanzi alle aggressioni dei sauditi e all’appoggio degli americani».
Ritenete responsabile Donald Trump di quanto sta accadendo?
«Questa guerra è iniziata prima di Trump, in ogni caso l’America non è mai stata onesta, né con Obama né con Trump. Dapprima ha appoggiato i sauditi fornendogli armi, logistica, intelligence, persino militari sul terreno che addestravano le forze saudite e yemenite. Poi ha annunciato che si sarebbe tirata fuori dal conflitto, cosa che di fatto non è avvenuta ed è su questo che l’Onu dovrebbe condurre un’inchiesta. È solo propaganda».
Cosa intende in particolare?
«Che gli Stati Uniti si stanno infilando in questa guerra cavalcando le tensioni nel Golfo per allargare il conflitto su base regionale. È un modo per giustificare il loro sostegno a Riad con cui, assieme a Israele e ad altre monarchie sunnite, hanno stretto un patto di ferro per stroncare l’Iran, il mondo sciita e la popolazione yemenita».
Però l’Iran complica un po’ le cose in Yemen, non trova?
«Guardate chi sta combattendo contro di noi, ci sono sudanesi, emiratini, sauditi, una coalizione di 17 Paesi, ma dall’altra parte non c’è un iraniano o un hezbollah. Guardate cosa sta succedendo con i terroristi, non solo Al Qaeda ma anche l’Isis, che prima non c’era, si sta rafforzando in Yemen, esattamente come è accaduto in Siria. E ancora una volta dietro ci sono i soliti noti, sauditi in testa. Non permetteremo che accada di nuovo».
Però in Yemen arrivano parecchi soldi da Teheran...
«I soldi che arrivano dall’Iran non rappresentano un’interferenza ma un aiuto alla nostra popolazione che altri Paesi vorrebbero sterminare».
Arrivano anche armi però...
«La situazione politica è chiara, i sauditi non vogliono fermare le aggressioni, non vogliono fermare la guerra, noi cosa possiamo fare? Riad, senza gli Usa, non sarebbe in grado di combattere questa guerra, e se continuano ad attaccarci è solo perché dietro di loro c’è l’appoggio di Trump. Da parte nostra non ci sarà nessuna pace senza giustizia, nessuna tregua sino a quando l’America non si farà da parte. Sino ad allora risponderemo alle aggressioni, i nostri missili saranno la loro condanna».

Gianni Vernetti: "Quella linea che unisce la guerra in Yemen agli attacchi alle petroliere"

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Gianni Vernetti

Poche ore dopo l’attacco alle due petroliere battenti bandiera norvegese e giapponese, Mike Pompeo, Segretario di Stato Usa, ha accusato l’Iran fornendo prove video dell’intelligence statunitense che documentavano la rimozione di una mina inesplosa da parte di militari iraniani.
I governi e le intelligence britanniche e israeliana hanno confermato la versione statunitense nelle ventiquattrore successive all’attacco, ricordando come il doppio attentato di pochi giorni fa fosse molto simile al sabotaggio nei confronti di quattro petroliere avvenuto lo scorso 13 maggio nello Stretto di Hormuz.
Ieri pomeriggio l’Arabia Saudita ha confermato le accuse nei confronti dell’Iran. Con un’intervista rilasciata al quotidiano panarabo «Asharq al-Awsat», il principe ereditario Mohammed Bin Salman ha accusato Teheran di essere direttamente responsabile dell’attacco proprio nel momento in cui il premier giapponese Shinzo Abe si trovava nella capitale iraniana per tentare di riaprire un canale di dialogo con il regime degli ayatollah.
Il ministro saudita all’Energia Khakid al-Falih è stato ancora più esplicito dichiarando che «l’atto terroristico del regime iraniano rappresenta una minaccia per le forniture energetiche globali e per la stabilità dei mercati».
L’Iran ha finora reagito convocando l’ambasciatore britannico Rob Macaire, rappresentante dell’unico paese europeo che ha puntato il dito contro il regime di Teheran.
Ma l’attentato di pochi giorni fa non è un episodio isolato ed anzi fa parte di una precisa strategia iraniana di esportazione dell’instabilità nel Golfo e in tutto il Medio Oriente. Si tratta del tentativo in corso da alcuni anni di creazione di un efficace network del terrore in grado di destabilizzare interi paesi.
Questo è stato il lavoro fin qui svolto dal generale Qassem Soleimani, capo della Brigata «Niru-ye Qods», la Brigata Gerusalemme, l’unità delle Guardie Rivoluzionarie che ha il compito di armare e finanziare il network globale degli amici e alleati dell’Iran: Hezbollah nel sud del Libano; Hamas nella Striscia di Gaza; le milizie sciite di Hashd al-Shaabi in Iraq; l’intervento militare diretto in sostegno del regime di Assad; ed infine le milizie Houthi nel nord dello Yemen.
Ed è proprio la rivolta armata delle milizie Houthi, con decine di attacchi all’Arabia Saudita con missili, droni e barche cariche di esplosivo, la chiave per capire gli attacchi alle petroliere di questi giorni.
La rivolta armata degli Houthi, organizzata, finanziata ed armata dall’Iran, è sostanzialmente fallita in seguito all’intervento armato saudita ed emiratino in Yemen, che ha ridotto il paese ad un cumulo di macerie.
Per quanto indebolita a livello internazionale dalla vicenda Kashoggi, l’Arabia Saudita è oggi il vincitore in Yemen a scapito dell’Iran. E l’ulteriore rafforzamento saudita non può essere tollerato da Teheran, che ha quindi alzato la posta in gioco.

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