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La Stampa Rassegna Stampa
22.05.2019 La storia dell'argentiere ebreo nella Torino del Settecento
Commento di Ariela Piattelli

Testata: La Stampa
Data: 22 maggio 2019
Pagina: 56
Autore: Ariela Piattelli
Titolo: «Una caffettiera 'impossibile' non fermò l’artista ebreo che voleva essere argentiere»

Riprendiamo dalla STAMPA - Torino di oggi, 22/05/2019, a pag.56, con il titolo "Una caffettiera 'impossibile' non fermò l’artista ebreo che voleva essere argentiere", il commento di Ariela Piattelli.

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Ariela Piattelli

A metà Settecento una diatriba tra argentieri torinesi durata 4 anni scosse le stanze di Re Carlo Emanuele III. Questa storia, tra gelosie professionali e antisemitismo, è racchiusa in un faldone dimenticato conservato all’Archivio di Stato di Torino, e sarà raccontata da chi l’ha scoperta, l’antiquario Gianfranco Fina, oggi alla presentazione del suo libro «Argentieri piemontesi del ‘700», e all’inaugurazione della mostra a loro dedicata al Museo Ebraico di Roma.

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Nei documenti d’epoca è una caffettiera, naturalmente in argento, l’oggetto della discordia. Ma dietro al manufatto c’è la vicenda dai contorni del giallo, che ha come protagonista Moise Vitta Levi, un maestro dell’arte, figlio di un argentiere di Acqui che si trasferì a Torino. Vitta Levi fece domanda alla corporazione degli argentieri per poter sostenere l’esame e diventare maestro a tutti gli effetti, ovvero poter aprire bottega, fare ogni tipologia di oggetto, compresi quelli grandi «di grosseria», firmare con il marchio personale.

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All’epoca agli ebrei come Moise non era concesso di entrare a far parte della corporazione, ma era permessa qualche eccezione per «grazia» del Re. Quando Vita Levi chiede nel ’53 ai sindaci dell’Università degli orefici di sostenere l’esame, lui era già, di fatto, un maestro di grande talento. Poteva lavorare, in quanto artigiano ebreo, soltanto oggetti di piccola taglia, ma li rendeva delle vere e proprie opere d’arte. «L’argento antico era un materiale preziosissimo, molto più di quanto lo sia oggi. Valeva come l’oro - racconta Fina - L’argento vive in continuazione, perché si fonde e si rilavora. Ma per lavorarlo da maestro d’arte serve immaginazione e abilità tecnica, qualità che Vitta Levi aveva da vendere, e questo, assieme al fatto che l’argentiere fosse ebreo, dava un certo fastidio: far entrare il candidato nel già affollato Olimpo dei maestri, sarebbe stato un problema. A quell’epoca a Torino c’erano 70.000 abitanti, tra cui 1000 ebrei. Gli argentieri erano un centinaio. Per la corporazione questi dovevano essere cattolici». È così che i sindaci fanno «orecchie da mercante», ed ignorano la richiesta di Vitta Levi, che si appella al Re ed ottiene la possibilità di essere esaminato.
«L’ebreo», come viene chiamato in tutti i documenti, dopo due anni di appelli, suppliche e richieste, è così ammesso all’esame, e da questo momento inizia un percorso fatto di polemiche, prove sabotate, giuramenti, testimonianze, piccoli dispetti ed angherie. Tra i capi d’opera richiesti al candidato c’è una caffettiera «a contorno storto» che lui disegna con impegno e maestria. Ma agli esaminatori la creazione non piace, secondo loro la caffettiera non si terrebbe neanche in piedi. Quindi inutile dar seguito all’esame. Vitta Levi si appella di nuovo, spiegando che di meglio non sa fare e lancia una provocazione: «Faccio istanza ad uno di loro signori di formare un altro secondo la loro dimanda», ovvero che la facciano loro, gli esaminatori, la caffettiera.
Carlo Emanuele III, dopo l’ennesimo appello, concede la possibilità all’artigiano di creare la sua caffettiera, e Vitta Levi coglie l’opportunità, appoggiandosi a una bottega fuori dal ghetto, dove può lavorare soltanto di giorno. Alla sera è costretto a chiudere il manufatto in una cassetta, con tanto di sigillo, per dimostrare di non lavorarlo di notte nel ghetto in cui è segregato. Era l’ennesimo dispetto per ostacolarlo in ogni modo. Nel frattempo gli si chiedono rimborsi, soldi per il materiale, e per il «disturbo» dell’Università. E lui, con sei figli a carico, nei tre mesi concessi non riesce a completare il lavoro.
«Finì l’oggetto un po’ di corsa – continua Fina – lo presentò di persona al Re, a cui piacque e “per sua grazia” gli concesse l’autorizzazione ad entrare nella corporazione. Però non verrà mai accolto veramente nel circolo». Siamo nel ’57, Moise adesso può creare opere di grosseria e firmarle con il suo marchio.
«È stato un grande maestro, ha prodotto opere importanti, - continua l’antiquario - come i due piatti per Pesach (la Pasqua ebraica) di cesello e raffinatezza unica, esposti nella mostra a Roma».
Si direbbe un lieto fine, ma la storia continua con i due figli maschi di Vitta Levi: Pacifico, che segue con successo le orme del padre, scamperà alla rigida burocrazia grazie a Napoleone che sopprime le corporazioni. Lui potrà lavorare tranquillo, e produrrà una grande quantità di opere. Al Museo Ebraico di Roma ci sono anche le sue coppe, i piatti, ed i candelieri per lo Shabbat.
Il figlio minore Isachia però vivrà la Restaurazione, il rientro dei Savoia, con cui tornano anche le corporazioni. Nel 1818 l’aspirante argentiere si appellerà all’Università e chiederà di non aver filo da torcere come fu per il padre, allegando alla missiva i faldoni del processo. La commissione prometterà un esame facile, ma di Isachia oggi non sembra esserci traccia: «Non sappiamo se passò la prova. – spiega Fina - Io non ho mai trovato il suo marchio».

 

 

 

 

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