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La Stampa Rassegna Stampa
19.03.2019 Ucciso dai terroristi islamici Lorenzo Orsetti, combatteva con i kurdi contro l'Isis
L'ultima intervista di Francesco Semprini

Testata: La Stampa
Data: 19 marzo 2019
Pagina: 1
Autore: Francesco Semprini
Titolo: «'Fiero di esser qui a combattere. Questa è una guerra di civiltà'»
Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 19/03/2019, a pag.1-3 con il titolo 'Fiero di esser qui a combattere. Questa è una guerra di civiltà' l'intervista di Francesco Semprini a Lorenzo Orsetti.

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Francesco Semprini

«Mi chiamo Heval Tekosher, sono di Firenze e da un anno e mezzo combatto per la causa del Rojava». È il biglietto da visita col quale Lorenzo Orsetti si è presentato il 3 febbraio durante il nostro incontro nel cuore della Siria Nordorientale. Stazionava in una base delle retrovie con gli altri combattenti della Brigata internazionale, il reparto di volontari provenienti da tutto il mondo che sposano la causa curda. Aspettava di tornare al fronte per combattere contro l’ultima sacca di resistenza delle bandiere nere. La stessa dove è morto due giorni fa per mano dei tagliagole dello Stato islamico, donando la sua vita a quella che lui stesso ha chiamato una «guerra di civiltà».

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Lorenzo Orsetti

Lorenzo, ci parli di te?
«Il mio nome è Heval Tekosher [Lottatore], ho 32 anni e sono di Firenze. Sono arrivato in Rojava un anno e mezzo fa, spinto dagli ideali alla base della rivoluzione del popolo curdo».
Quanti italiani ci sono con te?
«Al momento dovremmo essere quattro compagni italiani nelle unità curde e due compagne nei reparti femminili».
Dove hai combattuto?
«Ad Afrin contro i turchi e a Deir ez-Zor contro l’Isis, sia nella battaglia di Hajin sia ad Al-Susa».
Ci sono stati momenti in cui ha temuto il peggio?
«I miliziani delle bandiere nere sono molto forti, hanno manovre di accerchiamento efficaci, in un paio di occasioni siamo stati molto vicini a capitolare. Abbiano perso diversi compagni, quando ti inizia a morire la gente accanto si crea un vuoto interiore, ma è guerra e la guerra è così».
Cosa ricordi dei combattimenti?
«Tante mine, tanti cecchini. Sono le cose per cui si moriva più facilmente, sono morti tanti compagni sulle mine e anche tanti civili, specie quelli che tornano nelle zone liberate».
E poi ci sono i kamikaze.
«Autobomba e cinture esplosive sono state la prerogativa dei miliziani a lungo. A un certo punto Al Baghdadi ha dato l’ordine di non farsi esplodere, diceva ai suoi “risparmiate le vite, mantenete il profilo basso e colpite quando potete”».
La prossima guerra potrebbe essere proprio con la Turchia?
«Contro la Turchia è una guerra completamente differente, abbiamo già visto ad Afrin quello di cui sono capaci. Ankara ha dimostrato tutti i suoi intenti aggressivi, vuole cancellare i curdi e da tempo ha mire precise in questa zona».
Cosa ti è rimasto impresso della guerra con i turchi?
«Gli attacchi con aerei e droni. Contatti col nemico li abbiamo avuti solo il primo mese, poi sono partiti i massacri dall’alto. Ho impressi macerie e morti, soprattutto civili, tanti bambini».
Se si tratta di una guerra giusta, quella che state combattendo, come mai ai volontari italiani tornati a casa è stata imposta la sorveglianza speciale?
«Sono state richieste queste misure per cinque compagni italiani Paolo, Jack, Eddy, Davide e Jacopo che saluto, con un’accusa che io trovo assurda. Solo perché sanno usare le armi sono stati dichiarati socialmente pericolosi, fra l’altro accuse dalle quali non si possono difendere. Lo trovo antidemocratico. Alcuni di questi ragazzi erano venuti in Siria come giornalisti per documentare quanto stava accadendo ad Afrin, altri lavoravano nel civile, non si tratta di fanatici. Anche se sono legati a movimenti, come No Tav, questo non fa di loro dei terroristi a prescindere. Ecco perché mi sembra una misura politica».
Come vi definite politicamente?
«Io personalmente sono anarchico, molti qui sono di estrazione marxista-leninista, ma è diverso il confederalismo democratico pensato e scritto da Ocalan dall’idea del comunismo che si ha nell’immaginario collettivo. Il suo è un esperimento di società basata sul rispetto di diversità e dignità e pace a tutti».
E tu che c’entri con questa guerra?
«Molti associano la battaglia del Rojava con qualcosa di tipicamente di sinistra, ma continuo a dire che non si deve essere di destra o di sinistra per capire che la Turchia è una minaccia per tutti, nel Medio Oriente ma non solo. Perché destabilizzare il Medio Oriente significa creare tensione in tutta l’umanità. Così come la guerra contro l’Isis non è di parte, è la guerra di tutti, una guerra di civiltà. L’Isis è un male assoluto, si sono macchiati di ogni genere di atrocità e come loro le altre organizzazioni jihadiste, da Al Qaeda in poi».
Il califfato però è ormai storia?
«Il califfato forse, ma la minaccia dell’Isis rimane con i miliziani che sono riusciti a nascondersi tra i civili, quelli riparati in Turchia, tornati in Europa o in giro per il mondo».
Se torni in Italia temi misure giudiziarie?
«Al momento il rientro in Italia non è tra i miei progetti, ma nel caso posso solo dire che sono fiero di quello che sto facendo e sono pronto ad assumermi le mie responsabilità».
Quando avrai nipoti cosa racconterai di questa esperienza?
«Non so se avrò nipoti, per adesso oltre ai miei genitori e i parenti di provenienza non ho nessuno, né moglie né figli, ho però un cane, è a casa che mi aspetta, si chiama Orso. In ogni caso una cosa fondamentale qui sono i rapporti umani, si creano relazioni uniche coi compagni, si respira un’aria diversa, culturalmente parlando, e certe esperienze, in guerra, ti legano per sempre».

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