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La Stampa Rassegna Stampa
03.03.2019 Siria: la minaccia si chiama sempre Iran
Analisi di Francesco Semprini, Alberto Simoni

Testata: La Stampa
Data: 03 marzo 2019
Pagina: 8
Autore: Francesco Semprini-Alberto Simoni
Titolo: «Washington preme sui Paesi Nato per mantenere una presenza in Siria»

Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 03/03/2019, a pag.8  con il titolo "Washington preme sui Paesi Nato per mantenere una presenza in Siria" la cronaca di Francesco Semprini e Alberto Simoni

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Una forza multinazionale da impiegare in Siria entro la fine di aprile con il contributo dei Paesi Nato. È il progetto sul quale puntano i generali americani dopo aver convinto Donald Trump a lasciare almeno 400 militari americani nel Paese mediorientale, dopo aver annunciato il ritiro di tutte le truppe, circa 2 mila, di stanza sul territorio. Il Pentagono vuole dar vita a una forza di interposizione composta tra gli 800 e i 1500 militari dei Paesi Nato, da schierare principalmente al confine con la Turchia e impedire scontri pericolosi tra curdi siriani e militari di Ankara come già successo ad Afrin. A condurre il confronto con i partner dell’Alleanza è il generale Joseph Dunford, capo di Stato maggiore la loro presenze in Siria: se non ci saranno gli americani non saranno certo loro a condurre raid e offensive. Una presa di posizione legata al nodo sul nucleare iraniano, come suggeriscono fonti diplomatiche europee: «Noi non abbiano nessun problema con gli iraniani, sicuramente non vogliamo che salti il trattato sul nucleare, è a Washington che sono ossessionati. Quindi tocca agli statunitensi fare la prima mossa e restare in Siria se non vogliono favorire l’espansione di Teheran». Da Bruxelles arrivano conferme su quello che è l’orientamento americano ma mentre fonti vicine alla Difesa italiana dicono che «ancora non se ne parla tra gli alleati» e ad ogni modo «al momento non vi sono margini per un contributo italiano in Siria». «Tra l’altro - proseguono - prima di tutto ci deve essere un mandato delle Nazioni Unite». Non è così secondo un funzionario Usa che all’Ap spiega come l’obiettivo non è di operare con una missione di caschi blu, visto che il mandato da «pacekeeper» limita le regole di ingaggio. Esiste già un precedente in Siria in cui, fra l’altro, l’Italia è coinvolta: a seguito del peggioramento delle condizioni di sicurezza dell’area a ridosso del confine turco, la Nato ha accolto la richiesta di Ankara di incrementare il dispositivo di difesa area integrato. Così, sin dal 2013, cinque Paesi dell’Alleanza hanno contribuito all’operazione schierando batterie missilistiche: Germania, Italia, Spagna, Olanda e Stati Uniti. Attualmente sono presenti una batteria Patriot spagnola e una batteria Aster Samp/t italiana. La partita è connessa con quella in corso al Palazzo di Vetro dove tutti hanno preso coscienza del fatto che Bashar al Assad ha vinto militarmente, ma rimane irrisolto il nodo politico, elemento che tocca da vicino Mosca. «La Russia non ha intenzione di restare impelagata in Siria - spiegano fonti diplomatiche Onu -, non se lo può permettere nemmeno economicamente e Vladimir Putin lo ha fatto presente a Bashar al Assad». È per questo che il Cremlino si sta dando da fare su una fase di transizione, anche in vista di una successione ad Assad, «e lo sta facendo molto più di Teheran». Per gli iraniani è diverso, «la Repubblica islamica ha tutto l’interesse a vedere collegate Iran e Iraq con il Mediterraneo e rafforzare Hezbollah, la loro assicurazione contro Israele che i miliziani sciiti possono colpire in 30 secondi». E Trump di questo non può non tener conto.

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