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La Stampa Rassegna Stampa
19.02.2019 Donald Trump non vuole terroristi islamici negli Stati Uniti: bisognerebbe imitare la sua politica
Cronaca di Marco Bresolin, Grazia Longo intervista il procuratore nazionale Antimafia e Antiterrorismo Federico Cafiero de Raho

Testata: La Stampa
Data: 19 febbraio 2019
Pagina: 8
Autore: Marco Bresolin - Grazia Longo
Titolo: «L’Unione europea dice no a Trump: 'Non prenderemo i foreign fighter' - 'Giusto giudicare i terroristi nei tribunali dei Paesi d’origine'»

Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 19/02/2019, a pag.8, con il titolo "L’Unione europea dice no a Trump: 'Non prenderemo i foreign fighter' " la cronaca di Marco Bresolin; con il titolo 'Giusto giudicare i terroristi nei tribunali dei Paesi d’origine', l'intervista di Grazia Longo al procuratore nazionale Antimafia e Antiterrorismo Federico Cafiero de Raho.

A destra, la vignetta di Dry Bones, di Yaakov Kirschen: "Quando i futuri storici scriveranno del coraggio europeo di fronte al terrorismo islamico... sarà un libro veramente breve!"

Bene fa Donald Trump a non volere terroristi islamici nel proprio Paese e a rimandarli indietro. Tutti i Paesi intenzionati a combattere seriamente il terrorismo islamico dovrebbero prendere esempio.

Ecco gli articoli:

Marco Bresolin: "L’Unione europea dice no a Trump: 'Non prenderemo i foreign fighter' "

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Marco Bresolin

Gli oltre 800 foreign fighter europei detenuti in Siria per ora restano dove sono. I principali governi Ue hanno infatti respinto al mittente la richiesta di Donald Trump, che li aveva spronati a riprendersi i connazionali per processarli. Assolutamente contrari il Belgio e il Regno Unito, ma anche Germania e Francia hanno chiuso la porta alle richieste di Trump.
La motivazione è duplice. C’è innanzitutto una questione diplomatico-formale: le cancellerie europee non hanno affatto apprezzato la richiesta di Washington, vissuta come «un ordine», e dunque vogliono ribadire che saranno loro a decidere se e quando rimpatriare i combattenti. Poi c’è un problema tecnico-sostanziale: i sistemi giuridici europei rischiano di incepparsi di fronte a soggetti accusati di aver commesso crimini in zone di guerra in altri Paesi. Le prove - raccolte in un altro Stato - potrebbero non reggere le accuse nei tribunali europei, con il rischio di dover rilasciare in libertà nei propri Paesi personalità estremamente pericolose. C’è poi la questione dei «non combattenti», come le donne o i bambini: anche loro hanno commesso un reato? Se non condannati potrebbero essere rimessi in libertà e costituire una minaccia per la sicurezza nazionale?
«Il loro rimpatrio è estremamente difficile da attuare» dice Heiko Maas, ministro degli Esteri di Berlino. I circa 270 tedeschi che si trovano in Siria e Iraq torneranno in Germania «solo quando avremo la certezza di poterli prendere direttamente in custodia per processarli immediatamente». Ma per farlo servono «informazioni giudiziarie che al momento non sono garantite». Il portavoce di Angela Merkel, però, non sbarra definitivamente la porta e assicura che Berlino è in contatto con gli Usa e con gli altri governi europei, «in particolare con Francia e Gran Bretagna», per trovare una soluzione.
Ma il «no» che arriva da Londra è secco: «I foreign fighter - dice il portavoce di Theresa May - dovrebbero essere portati davanti alla giustizia nella giurisdizione più appropriata. Ove possibile nella regione in cui i crimini sono stati commessi». Sulla stessa linea anche Charles Michel, primo ministro del Belgio, Paese che ha visto partire circa 400 combattenti: 150 sarebbero ancora in Medio Oriente e a questi vanno aggiunti circa 160 minori, molti dei quali nati proprio nelle zone di guerra. Il governo di Bruxelles chiede che venga istituito un tribunale speciale.
Anche Parigi ha replicato in modo molto brusco all’invito americano. «In questa fase la Francia non risponderà alle domande di Trump» ribatte Nicole Belloubet, ministro della Giustizia. Sono circa 150 i francesi detenuti dalle forze democratiche siriane guidate dai combattenti curdi. «Nemici della nazione», secondo il ministro degli Esteri Jean-Yves Le Drian, che si è detto contrario ai rimpatri anche se un mese fa era filtrata la volontà di Parigi di giudicare in patria i combattenti.
Ieri la questione è finita sul tavolo dei ministri degli Esteri dell’Ue, riuniti a Bruxelles. Ma come ha precisato l’austriaca Karin Kneissel, «non ci sarà una risposta dell’Unione europea». Spetterà infatti ai singoli governi decidere cosa fare, anche perché «i Paesi - ha ricordato la ministra - sono coinvolti in modo molto diversi. Alcuni hanno un alto numero di foreign fighter, altri ne hanno meno o addirittura zero». Inoltre i sistemi giuridici sono differenti tra i Paesi Ue e quindi è difficile definire un approccio comune. Federica Mogherini, Alto Rappresentante per la politica estera dell’Unione, si è comunque detta disponibile a dare un supporto agli Stati membri per individuare soluzioni e «coordinare le posizioni».
L’Ue è preoccupata in particolar modo per i minori. Ma c’è anche una questione legata alla tutela dei diritti fondamentali. In Europa crescono i timori per come questi combattenti potrebbero essere giudicati e trattati se affidati ai tribunali nella regione. Per esempio potrebbe essere condannati alla pena di morte, che non è prevista da nessun Paese Ue.

Grazia Longo: 'Giusto giudicare i terroristi nei tribunali dei Paesi d’origine'

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Grazia Longo

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Il procuratore nazionale Antimafia e Antiterrorismo Federico Cafiero de Raho

Da un punto di vista giudiziario ritengo sia giusto che ogni Paese si faccia carico del rientro dei propri foreign fighter. Tra gli oltre 800 di cui parla il presidente americano Donald Trump, 2 sono italiani. In Italia li aspetta il carcere duro.
Il procuratore nazionale Antimafia e Antiterrorismo Federico Cafiero de Raho ribadisce l’importanza di un’azione coordinata contro i miliziani del Califfo.
Quanti sono in tutto i foreign fighter partiti dall’Italia?
«Complessivamente, fra italiani e stranieri partiti dal nostro Paese per combattere in nome dell’Isis, sono 138. Di questi, solo 25 sono di nazionalità italiana o naturalizzati: 4 di loro sono morti (3 italiani e un naturalizzato), 8 sono ritornati in Europa e di questi una donna è stata arrestata in Piemonte. Ne rimangono 13, di cui 11 sono irreperibili mentre 2 sono stati arrestati in Siria dagli americani insieme agli alleati curdi».
Di chi si tratta?
«Sono Samir Bougana, 24 anni, naturalizzato a Brescia e Meriem Rehaily, 23 anni naturalizzata a Padova. Ma non è escluso che emergano altri nomi. La Farnesina sta monitorando la situazione, in collaborazione con il direttore centrale della Polizia di prevenzione e presidente del Comitato analisi strategica antiterrorismo (Casa) Lamberto Giannini».
E nel caso questi due dovessero ritornare in Italia, come auspica il presidente Trump, in quale carcere verrebbero destinati?
«Brescia e Padova, sul territorio cioè dov’è stata avviata l’attività istruttoria nei loro confronti».
Sono previste misure di detenzione particolari?
«Dipende dall’impianto accusatorio nei loro confronti. Tanto più il quadro probatorio è grave, tanto più le misure restrittive saranno adeguate alle circostanze e quindi più dure».
Attualmente qual è la linea adottata nei confronti dei combattenti in difesa dello Stato islamico?
«Vengono perennemente controllati dalla polizia penitenziaria. Ai soggetti più pericolosi è destinata l’attività del Gom, gruppo operativo mobile, specializzato nell’osservare e valutare i comportamenti dei detenuti. Non solo dei radicalizzati, ma anche di chi evidenzia comportamenti sospetti. Il reclutamento in cella è uno dei rischi più diffusi e come tale va costantemente sorvegliato».
Il monitoraggio in carcere si avvale di altri supporti operativi per contenere il fenomeno della radicalizzazione?
«Fondamentale è la collaborazione esistente tra il personale penitenziario, la polizia giudiziaria, la magistratura e l’intelligence. Sia a livello nazionale, sia oltre confine. La cooperazione è il nostro punto di forza, maturato nei 50 anni di lotta alla mafia e al terrorismo rosso e nero, oltre a quello anarco insurrezionalista. Un metodo strategico esteso anche a livello internazionale: in poche ore siamo in grado di attivare uno scambio di informazioni tra le varie direzioni distrettuali distribuite sul territorio e le forze delle altre nazioni».
Quali sono le basi su cui poggia la collaborazione nel contrasto al terrorismo islamico?
«Possiamo usufruire di una macchina collaudata che si avvale di agenti sotto copertura, intercettazioni preventive e ricorso al lavoro dei servizi segreti. Ogni segnalazione è importante, a partire dalle transazioni economiche sospette. Si procede al confronto con la nostra Banca dati che mettiamo poi in relazione a quelle delle altre nazioni, in particolare con quelle di Francia, Germania, Olanda e Belgio».
I numeri del fenomeno sono destinati a crescere?
«Non è escluso, perché siamo di fronte a una situazione fluida che sfugge alla sorveglianza diretta. L’obiettivo è quello di potenziare sempre di più l’intesa tra i vari protagonisti impegnati contro il reclutamento di terroristi e l’arruolamento di foreign fighter. Sia al nostro interno che con gli altri Paesi ».

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