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La Stampa Rassegna Stampa
01.12.2018 Non c'è niente di più difficile che congedarsi dal proprio cervello
L'ultimo romanzo di A.B. Yehoshua recensito da Elena Loewenthal

Testata: La Stampa
Data: 01 dicembre 2018
Pagina: 1
Autore: Elna Loewenthal
Titolo: «Non c'è niente di più difficile che congedarsi dal proprio cervello»

Riprendiamo dalla STAMPA/Tuttolibri di oggi, 01/12/2018, a pag.1, con il titolo "Non c'è niente di più difficile che congedarsi dal proprio cervello" la recensione di Elena Loewenthal all'ultimo libro di A.B.Yehoshua "Il Tunnel", nelle librerie il prossimo martedì.

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A.B.Yehoshua

A.B. Yehoshua è un grandissimo scrittore, la recensione di Elena Loewenthal ne sottolinea con sensibilità la trama, mentre il titolo "Il tunnel " ha molto di simbolico, richiama la mente in pericolo del protagonista.
A noi ricorda anche altri tunnel, che in questi anni hanno messo in pericolo la sicurezza di Israele, altri simboli che potrebbero suggerire un altro romanzo, meno introspettivo sul piano personale, ma di sicuro interesse anche letterario per uno scrittore che volesse partire dalla parola 'tunnel' per descrivere le vite di un popolo che vive sotto la costante minaccia del terrorismo.

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Elena Loewenthal

E’ come un vortice inesorabile. Per brevi tratti accelera, s’avvita vertiginosamente. Poi rallenta, quasi si ferma. E riparte di nuovo. Proprio così è la lettura de Il Tunnel, l’ultimo romanzo di Abraham B.Yehoshua, in uscita per Einaudi nella traduzione di Alessandra Shomroni, in una onomatopea emotiva per cui il ritmo della narrazione è perfettamente sintono a quello della malattia dentro la quale il lettore si sente via via precipitare insieme al protagonista. Zvi Luria è un ingegnere in pensione. Ha sempre lavorato per quello che un tempo era il «Dipartimento dei lavori pubblici» e poi è diventato «Percorsi d’Israele»: l’ente di gestione della rete stradale in Israele. Sua moglie Dina è una affermata pediatra: dopo decenni di matrimonio i due riescono ancora ad amarsi in tutti i sensi (le descrizione dei loro rapporti intimi sono di una tenerezza e di una forza uniche), a discutere animatamente, a scherzare sulle proprie abilità in cucina. Hanno due figli grandi. All’inizio del libro, e del vortice narrativo che Yehoshua costruisce con la solita, strabiliante perizia, il neurologo comunica ai due coniugi che «Zvi ha una atrofia del lobo frontale, che potrebbe suggerire una lieve degenerazione neuronale». In parole povere, il cervello di Zvi è destinato ad andare in pappa. Come? Quando? Chi lo sa. Quel genere di disgrazie è imprevedibile. Tanto è certa la progressione verso la demenza, quanto è impossibile prevederne le modalità e i tempi. Per intanto, la cosa migliore da fare è tenere quel povero cervello in esercizio. Zvi comincia a seguire un giovane collega, figlio di un suo vecchio collega morente, impegnato nei sondaggi per una strada di comunicazione nel deserto del Neghev. E quel breve tratto di strada che dovrebbe avere al centro un tunnel – che forse si farà ma forse no – diventa a poco a poco lo specchio della mente di Zvi. Lui dimentica i nomi più comuni e facili da ricordare, si scorda l’indirizzo di casa. E invece tiene stranamente a mente i nomi più astrusi, le cose più inutili. A un certo punto decide, d’accordo con sua moglie, di farsi tatuare sul braccio le quattro cifre di quel codice dell’antifurto che in Israele hanno tutte le macchine, senza il quale non c’è modo di avviare il motore. In Israele delle cifre sul braccio indicano ben altro, in chi ha una certa età. E’ una scena beffarda, che Yehoshua maneggia con incredibile disinvoltura. Ma tutto il romanzo è un po’ così, in bilico fra l’assurdo e l’iperrealismo. Succedono tantissime cose, in questa storia. C’è un’attenzione quasi chirurgica al contesto, all’ambiente familiare di Zvi e quello degli altri protagonisti, come il giovane ingegnere Assael Maimoni. La macchina da presa della narrazione si cala a volte nell’intimità di una stanza dove una moglie si alza dal letto completamente nuda per insidiare Zvi, a volte spazia per l’orizzonte infinito del deserto, così come appare dalla terrazza dell’hotel Bereeshet, affacciato sul cratere di Mitzpe Ramon. Al centro della storia c’è il progetto del breve tunnel che dovrebbe tagliare una collina dove si è consumata e ancora si consuma una triste vicenda che vede una famiglia palestinese sradicata su un versante e sull’altro, che è diventata una famiglia fantasma fatta di persone vive e altre morte. Zvi «entra» in questa vicenda, se ne appassiona, prova a farla propria con le sempre più scarse possibilità che il suo cervello gli concede. Ricorda sempre meno, si sbaglia sempre di più. Eppure non c’è mai, né in lui né nella sua sempre più affaticata e smarrita Dina, un briciolo di rabbia, di risentimento per l’ingrato destino che ha condannato quel cervello così in gamba. E in fondo, in tutto questo romanzo ricco come solo i romanzi di Yehoshua sanno esserlo, non si racconta d’altro che di un lungo, doloroso e inaccettabile distacco – quello di Zvi Luria dal suo cervello, dalla logica del mondo e dagli affetti che lo circondano e che in un giorno non lontano non riconoscerà più. Non a caso, tutto si apre con la struggente memoria di quel terribile distacco che è stato per lo scrittore la morte nel 2016 della sua amatissima Ika, la moglie cui il romanzo è dedicato con l’«infinito amore» che si riconosceva nei loro sguardi, appena li si incontrava.

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