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Non dimenticheremo mail gli orrori del 7 ottobre (a cura di Giorgio Pavoncello) 15/01/2024


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La Stampa Rassegna Stampa
12.10.2018 Sotto l'islam diritti umani calpestati e giustizia sommaria. Ma perché accorgersene solo ora per attaccare Arabia Saudita e Egitto alleati di Trump?
Cronache di Giordano Stabile, Francesca Paci

Testata: La Stampa
Data: 12 ottobre 2018
Pagina: 15
Autore: Giordano Stabile - Francesca Paci
Titolo: «Le denunce del reporter scomparso fanno tremare l’Arabia Saudita - Americano arrestato e torturato per mesi dalla polizia»

Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 12/10/2018,a pag.15 con il titolo "Le denunce del reporter scomparso fanno tremare l’Arabia Saudita" la cronaca di Giordano Stabile; a pag. 18, con il titolo "Americano arrestato e torturato per mesi dalla polizia", la cronaca di Francesca Paci.

Giordano Stabile è diventato in questi anni un attento osservatore della realtà mediorientale, ma scrive troppo, nel senso che toccano quasi tutte a lui le corrispondenze da quella regione. Scrivendo troppo, può succedere di non avere il tempo di verificare ciò che si scrive. Gli succede qualche volta e non lo registriamo. Come succede oggi nell'articolo che riprendiamo. La figura del giornalista scomparso,  scriviamo così perché non si è ancora a conoscenza di come è andata realmente, viene raccontato come un perseguitato, quando si sa bene che appartiene a una famiglia saudita miliardaria, il cugino era stato fra i 100 miliardari accusati di enormi corruzioni da Mohammed Bin Salman e tenuti in custodia cautelare in un lussuoso hotel di Riad finchè, uno dopo l'altro, non accettarono di rimborsare le casse dello Stato con un miliardo di dollari ciascuno. Khashoggi si era avvicinato anche ai Fratelli Musulmani, nemici dichiarati dell'Arabia Saudita e non è un 'si dice'. Sul Washington Post aveva scritto che con la sua famiglia si era rifugiato negli Usa, quando poi si viene a sapere che si era recato a Istanbul con la sua 'fidanzata' e che, per poterla sposare, era andato al consolato saudita per avere i documenti necessari. Una storia perlomeno ambigua, che però Stabile presenta come 'normale'. Che dire poi del rovescio della realtà quando scrive dei rapporti con lo Yemen, che appare come vittima degli attacchi dell'Arabia Saudita, quando è quest'ultima a doversi difendere. Grave aver scritto del 'sequestro' del premier libanese Saad Hariri, quando lo sanno anche i bambini che lasciò il Libano per non finire ammazzato come il padre. MBS lo accolse come un amico, altroché sequestro.

Nella nota accanto al testo c'è anche una breve, sempre a sua firma, con una svista -chiamiamola così - indicativa del clima in casa Stabile: Trump vuole arrivare alla pace tra Israele e i palestinesi "piegando questi ultimi a condizioni più dure". Neanche Rep era arrivata a tanto.

Valutazioni generali:
Non è una novità recente che nei Paesi islamici le violazioni dei diritti umani siano all'ordine del giorno, la giustizia venga amministrata sommariamente e l'intolleranza sia una politica egemone. Molti media italiani, però, sembrano accorgersi soltanto adesso di questa realtà in Paesi come Arabia Saudita e Egitto, che pur essendo autoritari e non democratici hanno scelto di aprire ad alcune riforme, di combattere il terrorismo islamista e di schierarsi in modo pragmatico con le democrazie occidentali. Perché soltanto adesso questo interesse per i diritti umani proprio nei Paesi che hanno stretto una alleanza di fatto con gli Usa di Donald Trump in Medio Oriente?

Ecco gli articoli:

Giordano Stabile: "Le denunce del reporter scomparso fanno tremare l’Arabia Saudita"

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Giordano Stabile

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Jamal Khashoggi

Se davvero il potere saudita ha deciso di sbarazzarsi dell’editorialista del «Washington Post» Jamal Khashoggi, ha scelto il giornale sbagliato. Soltanto ieri il quotidiano americano ha pubblicato cinque pezzi ed editoriali sul caso. Una potenza di fuoco in grado di ribaltare l’opinione pubblica mondiale. La stessa tribuna che Khashoggi ha usato per una critica sempre più tagliente di Mohammed bin Salman, a partire dall’autunno del 2017, quando ha lasciato il Paese per timore di essere arrestato. Negli editoriali di Khashoggi si legge anche una sua evoluzione politica, verso posizioni più laiche, in contrapposizione netta con l’autocrazia, per quanto «riformista», del principe.

L’ultimo articolo, del 18 settembre, segna forse la sua sorte: «L’Arabia Saudita è sempre stata repressiva, ora è insopportabile». Denuncia «paura, intimidazioni, arresti, umiliazioni pubbliche di intellettuali e leader religiosi». Rivela che per anni non ha osato parlare per timore «di perdere il mio lavoro e la mia libertà» e adesso «ho fatto una scelta diversa: ho lasciato la mia casa, la mia famiglia, e ho alzato la mia voce, altrimenti tradirei quelli che languiscono in prigione: il mio Paese non è sempre stato così, merita di meglio». È un atto di accusa contro Bin Salman che «quando è salito al potere ha promesso riforme sociali ed economiche» mentre ora «tutto quello che vedo sono nuove ondate di arresti».
Già un anno prima, in un pezzo intitolato «Il principe ereditario agisce come Putin», Khashoggi denunciava la «corruzione totale, a livello di Stato», con contratti gonfiati a dismisura per arricchire i principi amici, come il progetto per le fognature di Gedda, «una serie di buchi nelle strade senza che ci siano i tubi a correre sotto».

All’inizio di novembre il sequestro del premier libanese Saad Hariri a Riad, e poi di oltre 300 principi e uomini di affari all’hotel Ritz Carlton, svela il lato oscuro del principe. Fra loro, precisa, «ci sono molti magnati dei media perché Bin Salman punta al controllo dell’informazione». Khashoggi denuncia «il caos totale» che l’Arabia Saudita sta creando in Libano e la repressione interna che va di pari passo. «Chiunque osi alzare la sua voce viene messo in un lista nera».
Le riforme sociali, come il diritto alla guida per le donne, vanno avanti ma il giornalista ne vede i limiti: «L’impegno sociale di ogni sorta deve essere al fianco del governo, nessuna voce indipendente è tollerata». E infatti una dozzina di attiviste vengono incarcerate. I piani faraonici del principe, come la costruzione di una nuova città ipertecnologica, vengono dissezionati. Che senso ha, si chiede, «quando all’interno del Regno ci sono banlieue miserabili da Terzo mondo». Anche la politica estera, con l’avventura in Yemen, che «più dura, più danni farà», è bocciata.

Khashoggi può contare su una rete di relazioni importanti. È cugino del miliardario Adnan Khashoggi, che lo ha raccomandato al tycoon Al-Waleed bin Talal, e al potente Turki bin Faisal Al Saud, già ambasciatore a Washington. Il reporter si è fatto i galloni in Afghanistan, e ha intervistato Osama bin Laden. Poi ha diretto il giornale Al-Watani. Ha idee politiche vicine alla Fratellanza musulmana ma è leale alla Corte, dove il suo riferimento è l’ex principe ereditario e ministro dell’Interno Mohammed bin Nayef, che però cade in disgrazia nel maggio 2017. Nell’estate le sparizioni di due principi mettono Khashoggi in allarme. Capisce che non può tornare in patria. Bin Salman teme però la sua influenza a Washington. Incarica un suo amico, Saud al Qahtami, di convincerlo a tornare, in cambio incarichi ad alto livello. Il giornalista non si fida. A maggio incontra la ricercatrice Hatice Cengiz, si fidanzano e lei lo convince a trasferirsi a Istanbul e sposarla. Sembra l’inizio di una nuova vita, invece è la fine. Servono i documenti per il divorzio dalla prima moglie. Khashoggi deve andare al consolato. Lo aspetta una trappola mortale.

 

 

Francesca Paci: "Americano arrestato e torturato per mesi dalla polizia"

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Francesca Paci

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Khaled Hassan

Mentre dal Cairo rimbalza la notizia di 17 condanne a morte pronunciate dai giudici di Alessandria per gli attentati a tre chiese cristiane-copte e Amnesty International punta l’indice contro i 55 Paesi ancora irriducibili all’abolizione della pena capitale, Human Rights Watch (Hrw) diffonde il caso di un cittadino egiziano-americano torturato per mesi dalla Sicurezza del Cairo, con l’accusa di essere affiliato a un gruppo vicino all’Isis. Il 41enne Khaled Hassan, impiegato come autista di limousine a New York, racconta adesso di essere stato arrestato l’8 gennaio scorso ad Alessandria dov’era in visita alla moglie peruviana Liuba Skateeff (in seguito espulsa insieme ai tre figli della coppia, tutti con doppio passaporto). Di lui, nonostante le richieste d’informazioni dei famigliari, non si è saputo più niente fino al 3 maggio, quando, provatissimo, ha fatto la sua comparsa davanti alla Procura militare chiamato a rispondere del reato di terrorismo.

Le punizioni efferate
Hassan sostiene di aver subito percosse, di essere stato appeso per le spalle fino a slogarsele, di essere stato sottoposto a torture e scariche elettriche «sui genitali» dopo almeno due episodi di violenza sessuale con «un bastone di legno». Alla fine sarebbe stato anche operato «senza anestesia» per una ferita causatagli dal teaser.

Le autorità del Cairo smentiscono tutto, come sempre da quando, con la deposizione di Mohammed Morsi e l’ascesa al potere del nuovo presidente al Sisi, le denunce di sparizioni forzate e tortura da parte della Sicurezza nazionale si sono moltiplicate. Nel lungo elenco c’è anche il caso di Giulio Regeni, il ricercatore italiano torturato e ucciso al Cairo nel 2016.

Tra il bando degli oppositori del regime (non solo i Fratelli Musulmani) e le leggi anti-terrorismo, la situazione dei diritti umani in Egitto è andata degenerando dal 2013, come ammesso anche da un promemoria del segretario di Stato americano Pompeo trapelato alcuni mesi fa, in cui si parlava di «arresti arbitrari» e «morti in detenzione». A luglio però gli Stati Uniti hanno confermato l’aiuto militare di 195milioni di dollari all’Egitto e Melania Trump ha incontrato il presidente al Sisi per ribadire la cooperazione. L’ambasciata americana al Cairo non commenta, ma ha chiesto conto delle condizioni mediche di Khaled Hassan, che in questi mesi è stato visitato più volte. «Al netto delle smentite, ecco un’altra prova che le forze di sicurezza egiziane operano nell’impunità», afferma il direttore di Hrw Medio Oriente e Nordafrica, Michael Page.

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