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La Stampa Rassegna Stampa
29.09.2018 Zoahr: Il 'libro dello splendore' ricerca le tracce del divino nel mondo
Commento di Elena Loewenthal

Testata: La Stampa
Data: 29 settembre 2018
Pagina: 25
Autore: Elena Loewenthal
Titolo: «Il 'libro dello splendore' ricerca le tracce del divino nel mondo»

Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 30/09/2018, a pag.25, con il titolo "Il 'libro dello splendore' ricerca le tracce del divino nel mondo" il commento di Elena Loewenthal alla versione inglese negli Usa del "Libro dello Splendore"(Zohar)

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L'ebraico è una lingua antica, talora disarmante nella sua essenzialità: le parole sono codici, più che mere espressioni. Vi sono però sfere di grande e suggestiva ricchezza lessicale, come ad esempio quella della «luce», che si apre a una quasi inesauribile gamma di sfumature. In questo contesto, la radice zohar indica sicuramente una manifestazione potente, invasiva: non un raggio, né un fascio, ma qualcosa che si irradia in tutte le direzioni e riempie il tempo e lo spazio. È dunque quanto mai appropriato il titolo di quella che è la summa della mistica ebraica, comunemente chiamata Qabbalah: Sefer ha-Zohar, cioè «il libro dello splendore», di cui si completa in questi giorni con l'ultimo dei dodici volumi la prima integrale traduzione inglese, avviata più di quindici anni fa da Daniel Matt per la Stanford University Press - la cosiddetta «Pritzker edition», dal nome della famiglia che ha finanziato l'impresa editoriale. E se luce è illuminazione, fisica e spirituale, nel caso di questa straordinaria dottrina della metafisica è anche un mistero abbagliante che racchiude tanto il cosmo quanto il testo stesso, che nella sua vastità è certamente il più arduo da comprendere di tutta la tradizione ebraica.
Dalla Spagna medievale
Il «libro dello splendore» è di fatto un immenso commento al testo della Torah, e soprattutto alle sue prime pagine, in cui si racconta la creazione del mondo. Attribuito a Shimon BarYochai, un dotto vissuto in terra d'Israele intorno al II secolo d.C., è in realtà un'opera composta nella Spagna medievale, per mano di tal Moshe de Leon. Non è scritta in ebraico bensì in un aramaico tanto arduo quanto fastoso, che di pagina in pagina regala un'immaginifica esplorazione del creato e della creazione, in cerca dei significati più riposti e inaccessibili, di quelle tracce che il divino ha lasciato nel mondo perché la parola le decodificasse. Tutto sta racchiuso nel testo sacro, nei primi capitoli della Bibbia: bisogna cercare, andare sempre più in fondo, seguendo la sequenza di metodi ermeneutici racchiusa in un acronomico assai pregnante. Pardes è la radice di «paradiso» ma in ebraico significa più prosaicamente «agrumeto», «giardino profumato». Le sue consonanti sono le iniziali di quattro parole che nell'ermeneutica ebraica indicano i quattro livelli di lettura e interpretazione del testo sacro, partendo dal peshat, cioè il senso letterale, per arrivare al sod, che è il «segreto» racchiuso nella parola biblica. Cui può accedere, secondo la tradizione, solo chi ha più di quarant'anni ed è uomo - non per aprioristico maschilismo, ma perché si presupponeva che solo i maschi potessero accedere ai livelli superiori di competenza linguistica e filologica. La Qabbalah, cioè la letteratura mistica dell'ebraismo che vede nel Sefer ha-Zohar la sua summa, non ammette che una frase, una parola, una congiunzione del testo biblico siano semplicemente quello che sembrano, anzi esprimono: tutto nasconde un inesauribile arcobaleno di immagini e significati. Così, ad esempio, la lettera con cui comincia la Genesi: una bet che è la seconda e non la prima lettera dell'alfabeto ebraico (perché Dio comincia di lì, e non dalla alef?), e che nella sua forma è chiusa su tre lati e aperta su uno soltanto, invitandoci a proseguire il cammino lungo la pagina ancora da scrivere. E se è vero che la cultura ebraica non conosce iconografia, perché così detta la Bibbia stessa - non farsi immagine né del Signore né di quel suo specchio che sono l'uomo e il creato -, lo è altrettanto che la tradizione «disegna» attraverso le parole, e lo fa più che mai in quel Sefer ha-Zohar che è una straordinaria miniera di suggestioni poetiche, di descrizioni del creato e della natura divina, di immagini vivide, ai limiti della concretezza.
Sfida lessicale e concettuale
Testo ermetico per eccellenza, il Sefer ha-Zohar non si legge: si dipana, parola per parola. Anche per chi ha tutta la competenza del caso, è sempre una sfida - lessicale e concettuale -, un'esplorazione del cosmo che spazia dal Big Bang alla sessualità, dalla condizione umana alla natura degli elementi. Questa prima traduzione integrale in lingua moderna (da secoli ve n'è una che porta il testo dall'aramaico all'ebraico) non si pone come obiettivo quello di rendere più «accessibile» un testo che è volutamente impervio e non c'è modo di «conquistare», ma di avvicinare il lettore alla sua difficile bellezza, all'ispirazione profondamente umana che anima ogni sua pagina.

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