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La Stampa Rassegna Stampa
08.09.2018 Guerre e dopoguerre nel caos mediorientale
Analisi di Maurizio Molinari, Gianni Vernetti

Testata: La Stampa
Data: 08 settembre 2018
Pagina: 24
Autore: Maurizio Molinari-Gianni Vernetti
Titolo: «La Libia è un tassello dello scontro per la leadership del mondo sunnita-La triplice alleanza alla prova del dopoguerra in Siria»

Riprndiamo dalla STAMPA di oggi, 08/09/2018, a pag.24/25 due servizi/analisi della situazione mediorientale:

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Maurizio Molinari:"La Libia è un tassello dello scontro per la leadership del mondo sunnita"

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Maurizio Molinari

la rivalità fra Francia e Italia in Nordafrica risale a quando Parigi si insediò in una Tunisia che guardava a Roma e Giolitti, il quale anni più tardi rispose con l’occupazione della Libia. Sin da fine Ottocento è un duello di interessi, disseminato di fibrillazioni nazionalistiche ma anche di importanti occasioni di collaborazione. Tutto ciò si è riproposto in Libia dall’indomani della caduta del regime del colonnello Gheddafi ed è sicuramente vero che oggi c’è un contrasto fra la strategia del presidente Macron e quella del premier Conte, imperniato sull’ipotesi di elezioni entro fine anno che Parigi persegue ed a cui Roma si oppone. Sarebbe tuttavia un errore leggere solo sotto questa lente il conflitto libico, che ha almeno tre dimensioni sovrapposte. La prima è la guerra permanente fra le quasi 150 milizie armate e 250 tribù che costellano il Paese: sono in contrasto per controllare qualsiasi area o infrastruttura capace di garantire potere, influenza, traffici e soprattutto denaro liquido. È nella natura tribale delle milizie. Esistono per combattersi e lo abbiamo visto negli ultimi giorni in occasione del duello lungo i confini della città di Tripoli, il cui unico intento era - ed è - avere più influenza, e dunque introiti, nella città più grande della regione più ricca. La seconda dimensione è il contrasto Italo-francese perché vede Roma e Parigi sostenere i due leader politico-militari più autorevoli del Paese, rispettivamente Al Sarraj in Tripolitania e Haftar in Cirenaica. E poi c’è la terza dimensione: la sfida per la leadership del mondo arabo-sunnita fra Riad e Ankara. I sauditi affiancano gli Emirati Arabi Uniti leader del fronte sunnita che include Egitto e Bahrein, individuando il loro acerrimo nemico nel Qatar che, alleato della Turchia di Erdogan, sostiene il movimento dei Fratelli Musulmani. Riad sta con Haftar, Ankara con Sarraj. Entrambi gli schieramenti vedono la Libia come il tassello di un conflitto più ampio, dal Golfo al Maghreb, per la leadership politica dell’Islam sunnita. Come se non bastasse sulla Libia si affacciano anche il disegno spietato del Califfato jihadista di Isis, i droni del Pentagono che lo combattono e gli interessi del Cremlino di trovare nuovi porti a Sud dell’Europa. Sono tali e tanti conflitti, gli uni sovrapposti agli altri, che rendono la guerra civile libica uno specchio feroce del Mediterraneo in trasformazione. Tentare di leggere tale reticolo di attriti solo con la lente di un solo conflitto, o attore,sarebbe l'errore più grande.

Gianni Vernetti: "La triplice alleanza alla prova del dopoguerra in Siria"

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Gianni Vernetti

Si è riunita ieri a Teheran la «triplice alleanza» fra Russia, Turchia e Iran. Vladimir Putin, Recep Tayyip Erdogan e Hassan Rohani si sono incontrati di nuovo dopo i primi due vertici a Sochi e ad Ankara. Sul tavolo, il nodo dell’enclave di Idlib e l’assetto finale della Siria dopo sei anni di devastante guerra civile che sta per giungere a conclusione. Le differenze di vedute fra i tre sono emerse in modo lampante proprio sul nodo di Idlib, con gli iraniani e i russi a stoppare la richiesta di tregua avanzata da Erdogan. Ma sul tappeto c’è molto di più: sapremo presto se la nuova alleanza tra Russia, Turchia e Iran potrà davvero rimodellare il Medio Oriente, cambiare gli equilibri regionale e persino scardinare la Nato, oppure se il «pantano» siriano dominerà la scena e valorizzerà i contrasti fra i tre Paesi. Russia, Turchia e Iran, hanno storicamente obiettivi diversi, e spesso contrastanti fra loro, frutto di una combinazione di fattori «interni» e «regionali». La Turchia è scossa da una profonda crisi economica con un’inflazione insostenibile ed una progressiva caduta della Lira Turca. La svolta autoritaria e islamista di Erdogan ha cambiato a fondo la Turchia e dopo il fallito golpe dell’estate del 2016 il Paese è irriconoscibile e sempre più distante da Europa e Occidente. Il leader del principale partito curdo Salahattin Demirtas ha condotto la campagna elettorale dal carcere di Edirne; la stampa libera non esiste più; decine di migliaia di insegnanti, giornalisti, magistrati e militari sono ancora incarcerati per contiguità con il «complotto gulenista». La Turchia è sempre stata come minimo ambigua sul dossier siriano, svolgendo la gran parte delle proprie operazioni militari non tanto contro i jihadisti, ma contro i curdi siriani di Ypg e le Forze Democratiche Siriane (Sdf), che sono stati il principale alleato dell’Occidente sul terreno ed uno strumento militare efficace per distruggere Isis e il Califfato. La Turchia si è anche progressivamente allontana dalla Nato: ha ottenuto dal Cremlino la tecnologia nucleare civile per coprire il 10% del proprio fabbisogno energetico ed ha acquistato da Mosca le batterie antimissile S-400. Gli obiettivi di Mosca sono chiari: consolidare la propria presenza nel Mediterraneo con la base permanente di Tartus sulle coste siriane; salvare il prezioso alleato Assad e fare della nuova Siria uno «Stato vassallo»; inserire un cuneo profondo nell’Alleanza Atlantica, lavorando per allontanare definitivamente la Turchia dalla Nato e dall’Occidente. Al tempo stesso la Russia non sostiene apertamente la Turchia nel suo conflitto armato contro i curdi, anche se, senza la luce verde di Mosca, sarebbe stato impossibile per Erdogan lanciare le due operazioni militari «Scudo dell’Eufrate» e «Ramoscello d’Ulivo», grazie alle quali ha cacciato i curdi dall’enclave di Afrin e di El Bab, occupando militarmente quella parte del Nord della Siria che proprio i curdi avevano espugnato da Al Qaeda e da Isis. L’Iran è forse il Paese che più ha investito in Siria in termini di uomini e mezzi: sono ancora migliaia i miliziani di Hezbollah impegnati in azioni di supporto all’esercito regolare siriano e il flusso di armi e rifornimenti fra Iran e Siria è ininterrotto da diversi anni. L’Iran persegue diversi obiettivi in Siria: realizzare il sogno della «mezzaluna sciita» per creare un territorio di influenza politico e militare fra le montagne della Persia e il Mar Mediterraneo, giungendo a minacciare Israele fino alle sue frontiere settentrionali; riproporre in Siria l’efficace «modello Hezbollah», finanziando e sostenendo militarmente una ampia rete di milizie in grado di condizionare la vita politica siriana; reagire in qualche modo al forte indebolimento economico prodotto dalle sempre più dure sanzioni Usa. Anche se con obiettivi non sempre collimanti, la «troika» che si è riunita a Tabriz condizionerà in modo determinante gli esiti del conflitto in Siria e forse farà anche nascere qualcosa di più duraturo. Di certo, proverà a colmare il vuoto lasciato da Usa ed Europa, purtroppo non più protagonisti in uno dei più importanti dossier mediorientali.

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