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La Stampa Rassegna Stampa
02.09.2018 Terrorismo islamico, stragi in arrivo in Europa-Guerra civile il Libia
Servizi di Giordano Stabile

Testata: La Stampa
Data: 02 settembre 2018
Pagina: 9
Autore: Giordano Stabile
Titolo: «Il piano del califfo, colpi devatanti in tutto l'Occidente-Tripoli ostaggio delle milizie anti Sarraj»

Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 02/09/2018, a pag. 8/9 due servizi di Giordano Stabile "Il piano del califfo, colpi devatanti in tutto l'Occidente" e " Tripoli ostaggio delle milizie anti Sarraj"

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Giordano Stabile

"Il piano del califfo, colpi devatanti in tutto l'Occidente"

L’ Isis ha rivisto e ristrutturato la sua organizzazione con sorprendente rapidità e ha adattato persino il suo marketing dopo le disfatte subite a Mosul e Raqqa nello scorso anno. Il califfato non esiste più come spazio territoriale contiguo, la leadership è stata decimata e almeno due terzi dei combattenti è stato ucciso. Il capo supremo Abu Bakr Al Baghdadi è però sopravvissuto al cataclisma, resta al comando ed è anche in buona salute a giudicare dal tono della voce dell’ultimo messaggio. L’audio di 54 minuti contiene una importante novità rispetto ai sette discorsi precedenti. Per la prima volta l’enfasi è posta sugli attacchi all’estero: ai centri di comando, e anche di «informazione», dei Paesi «crociati». In questo l’Isis ora assomiglia molto di più alla vecchia Al Qaeda, che aveva prima elaborato la teoria del «colpo devastante» in grado di mettere in ginocchio l’Occidente e poi quella delle «mille ferite» per dissanguarlo con una miriade di piccoli attentati. La caduta del califfato Dopo la caduta delle due capitali dello Stato islamico la dottrina di Al Baghdadi è stata quindi rovesciata. Nel 2014 consisteva nel motto «baqiya wa tatamaddad», «rimanere ed espandersi». I territori conquistati in Siria e Iraq dovevano diventare il nucleo di un califfato in continuo allargamento. Gli attacchi in Occidente, a partire dal 2015, erano solo una risposta ai raid per indurre America ed Europa a non ostacolare le nuove conquiste. Adesso il motto è diventato «rasd wa nikaya» che potremmo tradurre con «osservare, attendere l’occasione giusta, e condurre una campagna di attrito». Questo vale sia per le cellule sopravvissute nel Levante arabo che per quelle infiltrate in Occidente. In Siria e in Iraq negli ultimi mesi c’è stata una escalation di attacchi, anche massicci, che hanno fatto centinaia di vittime, come durante la campagna del 2013-2014 che fu il preludio alla creazione del califfato. Dopo un lungo black out la propaganda è risorta. Alla fine dell’anno scorso la produzione di opuscoli e video si era quasi oscurata. Ora, a luglio, sono stati messi in Rete una dozzina di video e i messaggi continuano a incitare i sostenitori che vivono in Europa. Dopo l’audio di Al Baghdadi c’è stato un sospetto attacco a Parigi e uno ad Amsterdam. Colpi non organizzati, certo, ma la rete islamista nel Vecchio continente non è del tutto smantellata. All’apice della sua potenza l’Isis contava su 100-150 mila combattenti, dai 40 ai 60 mila stranieri, compresi almeno cinquemila europei. Un esercito in movimento Adesso, secondo le Nazioni Unite e i servizi americani, tra Siria e Iraq sono rimasti 20-30 mila miliziani locali e qualche migliaio di foreign fighters. Dei combattenti stranieri arrivati fra il 2014 e il 2015 almeno un terzo è sopravvissuto, quelli catturati sono poco più di mille. Dai 10 ai 15 mila hanno preso la strada verso Libia, Sinai, Afghanistan, Indonesia ed Europa. Non sono state ancora pubblicate stime ufficiali di quanti sono riusciti a tornare nei Paesi europei, ma sono certamente centinaia. Alcuni senza più voglia di combattere, altri sì.

"Tripoli ostaggio delle milizie anti Sarraj"

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Un colpo di mortaio caduto a cento metri dalla nostra ambasciata a Tripoli ha alla fine allertato le cancellerie occidentali del pericolo. Nella capitale libica si combatte da sei giorni, ci sono almeno 39 morti e centinaia di feriti, e la tenuta del governo di Fayez al-Sarraj è a rischio. Sono gli scontri più gravi dalla cacciata di Muammar Gheddafi nell’agosto del 2011. Ma questa volta non c’è una rivoluzione in corso, c’è una lotta per dividersi la torta degli introiti statali, soprattutto petroliferi, che da sette anni vengono spartiti fra i signori della guerra della Tripolitania. Sarraj assediato A guardare con maggiore preoccupazione la degenerazione delle forze che sostengono Al-Sarraj è l’Italia, la potenza occidentale che più di tutte ha scommesso sul governo «di concordia nazionale», destinato a portare alla pacificazione del Paese. Invece Al-Sarraj non è riuscito a farsi accettare dalla Cirenaica, sotto il controllo ormai ferreo del generale Khalifa Haftar, ha perso gran parte del Fezzan, poi pezzi della Tripolitania e ora vede sgretolarsi anche Tripoli. I combattimenti si avvicinano al centro. Ieri razzi sono caduti sull’aeroporto Mitiga, che rimarrà chiuso fino a domani. In tarda mattinata, poi, un ordigno ha colpito l’hotel AlWaddan, accanto all’ambasciata italiana. Nell’albergo sono rimaste ferite tre persone, nella nostra legazione sono tutti incolumi. L’ambasciatore Giuseppe Perrone, sotto tiro da parte di Haftar, resterà e l’ambasciata «non chiuderà». La solidarietà con Roma A sostegno di Roma è arrivato un comunicato a firma dei governi di Francia, Italia, Gran Bretagna e Stati Uniti, che condanna «la continua escalation di violenza» e avverte che «questi tentativi di indebolire le legittime autorità libiche e ostacolare il corso del processo politico sono inaccettabili». I quattro Paesi esortano «tutti i gruppi armati a cessare immediatamente ogni azione militare» e avvertono: «Coloro che compromettono la sicurezza a Tripoli o altrove in Libia, saranno ritenuti responsabili». La firma della Francia è significativa. Parigi segue una rotta divergente da quella di Roma. Il suo punto di riferimento è Haftar, che diserterà la conferenza di Sciacca del prossimo mese. Il presidente Emmanuel Macron spinge perché si tengano a tutti i costi le elezioni presidenziali il 10 dicembre. Gli aiuti economici Ma le manovre francesi non spiegano tutto. Il governo di Al-Serraj si regge sulla forza militare di una decina di milizie. Il programma politico che le accomuna è spartirsi la torta, i soldi in arrivo dalla National oil company e distribuiti dalla Banca centrale. Negli ultimi mesi, notano analisti e diplomatici occidentali, il flusso «si è ristretto verso i gruppi che controllano le aree centrali» della capitale. Le milizie dei sobborghi guardano con invidia «gli stili di vita stravaganti» e «l’esibizione di lusso» da parte dei combattenti più fortunati. Lunedì la milizia della cittadina Tarhouna, a circa 60 chilometri a Sud della capitale, ha rotto gli indugi, ha accusato le milizie centrali di essere «l’Isis dei soldi pubblici». E ha promesso «pulizia» a colpi di cannone. Gli uomini di Tarhouna sono corteggiati da Haftar e puntano a costruire una alleanza di gruppi minori per spazzare via le formazioni più fedeli ad Al-Sarraj: le Brigate rivoluzionarie di Tripoli guidate dal signore della guerra Haithem alTajouri e la Brigata 301 di Misurata.

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