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La Stampa Rassegna Stampa
28.07.2018 BHL lascia il Corriere per la Stampa
Bernard-Henri Lévy commenta il caso Macron/Benalla

Testata: La Stampa
Data: 28 luglio 2018
Pagina: 1
Autore: Bernard-Henri Lévy
Titolo: «L'affaire Benalla, Macron nella vasca dei Piranha»

Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 28/07/2018, a pag.1/11, con il titolo "L'affaire Benalla, Macron nella vasca dei Piranha" il commento di Bernard-Henri Lévy, che da oggi collabora con il quotidiano diretto da Maurizio Molinari, dopo aver traslocato dal Corriere della Sera

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Bernard-Henri Lévy

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Emmanuel Macron, a destra Alexandre Benalla

Beninteso, le colpe di Alexandre Benalla sono imperdonabili. E, certo, Emmanuel Macron ha commesso diversi errori di giudizio, concedendo troppa fiducia a un giovane inesperto, esibizionista, un picchiatore pronto a fare indifferentemente la parte del poliziotto o quella del teppista. E ovviamente bisogna dire grazie ai giornalisti che, fedeli alla loro missione di denuncia, hanno costretto l’Eliseo a rivedersi, a rinunciare ai favoritismi e a rompere due mesi e mezzo di colpevole silenzio. Ma, da lì, che sequenza singolare e agghiacciante! L’opposizione, innanzitutto. Che, paralizzata dal ritmo macroniano delle riforme, ha scoperto finalmente il modo di farsi sentire, di fare la guerra per una buona causa. Ma dovremmo rallegrarci del fatto che siano Le Pen e Mélenchon a condurre il gioco? Non c’è qualcosa di inquietante alla vista di questi cavalli di ritorno - la cui avversione per i gorilla è ben nota, come no - che ora fanno la parte dei salvatori della polizia contro «le milizie»? E chi potrà credere che la preoccupazione per la Cosa pubblica sia l’unico oggetto del loro risentimento quando si legge, su «Le Journal du dimanche», che i responsabili di La France insoumise, spiegano nel dettaglio, tutti orgogliosi e con grande cinismo, gli elementi del linguaggio che, partendo da un video girato da uno di loro, li hanno portati - cito - ad «alzare la voce», «colpire x o y, ottenere» informazioni sul ben nascosto «articolo 40 del Codice di procedura penale» e rendere la crisi abbastanza «grave» da «danneggiare il presidente»? Ebbene no, signora Amazzone di Vichy, no, signor Paladino di Maduro, il caso Benalla non è il Watergate. No, è una sbavatura che è stata immediatamente svelata dalla stampa, ha portato a cinque incriminazioni, tante sono le indagini di polizia in corso, e a una commissione d’inchiesta parlamentare presentata con il concorso del ministro dell’Interno; no, non è un «affare di Stato». E se ovviamente si tratta, lo ripeto, di un grave errore, non è stato, come ha dichiarato il signor Mélenchon a «Le Monde», «la porta aperta a una forma di barbarie» e certamente non giustifica la successiva paralisi del Parlamento. Non si blocca un emiciclo come se fosse l’ingresso di una fabbrica. E nessun repubblicano può gioire nel vedere lo stesso Mélenchon, nella stessa intervista a «Le Monde», dire: noi «disapproviamo» le «istituzioni parlamentari» e approviamo che altri «le distruggano» e facciano «il lavoro al posto nostro». Ancora più preoccupante, la deriva che ne è seguita. La ripetizione ipnotica degli undici secondi del video originale che si ripetevano in loop, come un gioco o un file Gif... La successione di notizie fasulle non verificabili, ma velocissime a diffondersi, non con i tempi dell’informazione ma con quelli dei megabit digitali... Ipotesi grottesche sulla vita privata della coppia presidenziale, quali solo i cosiddetti social network sono in grado di produrre... Questa furia di spogliare l’uomo con il casco di tutti i segreti che potrebbero ricondurre al re - per poter dire, alla fine, come nella fiaba, il re è nudo. E poi questo banco di piranha che si precipita, in massa, sulla preda imperiale, che ha deciso di spolpare fino all’osso... Conosciamo bene la scena. Questa società, divorata dalla pulsione al disimpegno e il cui tratto caratteristico è l’istantaneità reattiva, è da tempo la nostra. E non è a oggi che risale lo scatenamento di questo nuovo maestro che è l’Opinione, le cui orde pettegole, blandite dalle correnti del web come schiaffi sovrani (o sovranisti), non hanno più la cura, né l’amore, né la vocazione di ciò che prima si chiamava il popolo. Ma raramente, mi sembra, la cosa era proceduta così velocemente. Ed è la prima volta, mi pare, che l’isteria di certi media («Le Parisien» titolava, con tanto di immagine evocativa a sostegno, «un consigliere troppo speciale») o di alcuni commentatori (Michel Onfray sul suo blog ha dissertato sul «Favorito del re», ospitato «fisicamente più vicino» a lui), è la prima volta, ripeto, che abbracciamo così, senza remore, il fruscio dei tweet, la fanfara dei forum di Facebook e il tutto orchestrale di un «grosso animale» la cui unica e sola ossessione, ripetuta in un unisono carnivoro, è diventata: prendersela con il presidente. Soprattutto perché c’è qualcos’altro. È difficile non pensare, mentre dilaga quest’altra forma di arroganza - quella dei sanculotti senz’anima, pieni di sé e crudeli, quali tutti stiamo diventando - alla feroce fermentazione di cui il mondo è teatro. Ed è impossibile non dirsi che di fronte a questo mondo impazzito, di fronte all’ascesa delle «democrature» e dei demagoghi, di fronte al trionfo, quasi ovunque, della psicosi del golpe planetario, restano in pochi, sempre meno, al servizio della civiltà, decisi a resistere a Putin, a fare argine contro il fascismo in ascesa in Ungheria, a non restare pietrificati di fronte alla politica dello sconvolgimento permanente condotta da Trump. Macron è uno di quelli. Si può non essere d’accordo con lui sulla Sncf o sui migranti, sul bilancio di domani o sulle economie del futuro, sulla sua indifferenza al vecchio e sulla sua ossessione per il nuovo. Ma non possiamo negargli il pregio di essere, in un’Europa alla deriva e in un mondo sull’orlo del baratro, uno degli ultimi - in parte, anche, a causa della sua famosa «arroganza» - in grado di resistere all’Internazionale delle nuove tirannie. Quindi, senza dubbio, i nostri populisti nazionali, con la loro sorpresa divina e la loro tendenza all’esternazione, se ne fregano. E forse MM. Jacob, Wauquiez e Ciotti, a malapena guariti dallo scandalo fillonista del Canard, sono meno preoccupati per lo stato del mondo che del loro affare di stato dell’estate. Se ne prendono la responsabilità. Ma questo non mi impedirà, di fronte al caos che si profila e alla devastazione che si aggiungerà di interrogarmi qui e di mormorare: «Si doveva fare lo stesso?».
Traduzione di Carla Reschia

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