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La Stampa Rassegna Stampa
15.07.2018 La politica di Donald Trump in Medio Oriente e la Russia di Putin
Commento di Laura Mirakian

Testata: La Stampa
Data: 15 luglio 2018
Pagina: 19
Autore: Laura Mirakian
Titolo: «Siria, la pedina di scambio che Trump può usare con Putin»

Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 16/07/2018, a pag.19, con il titolo "Siria, la pedina di scambio che Trump può usare con Putin" il commento di Laura Mirakian.

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Laura Mirakian

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Vladimir Putin, Donald Trump

Alcuni temono che nel prossimo incontro con Putin a Helsinki, subito dopo un vertice Nato a Bruxelles tutt’altro che facile e una puntata a Londra, Trump avvalli - tra l’altro - la politica di Mosca in Siria. In realtà, questa stessa politica è già stata avvallata a Washington. Non sappiamo ancora quali collegamenti possano essere fatti con altri scacchieri, ma l’impressione è che la partita cruciale con Mosca si giochi piuttosto in Europa, oltre che in Asia. La Siria per Trump è, come dire, un dossier collaterale. Semmai, emerge una linea di continuità con il metodo Obama di «leading from behind», con tendenza al disimpegno. Per Trump, Medio Oriente vuol dire piuttosto Iran, Israele, Arabia Saudita. Guardiamo ai fatti. In Siria, Trump ha lasciato ai russi ampio spazio. Parlando solo dei più recenti sviluppi, nell’estate 2017 ha interrotto il sostegno (piuttosto modesto) all’opposizione moderata che grosso modo coincide con i ceti medi; in luglio ha raggiunto un’intesa bilaterale con Mosca sul fronte Sud, a margine dell’accordo che ha coinvolto anche la Giordania per una «de-conflicting zone» a Dara’a, a ridosso delle frontiere con Giordania e Israele.
L’intesa, su cui è stato mantenuto il massimo riserbo, difatto ha deferito a Mosca e ad Assad - in qualche modo «riabilitato» rispetto all’obiettivo di «regime change» della prima ora - il compito di sgomberare dall’area le basi militari dell’Iran e le milizie pro-iraniane, a partire da Hezbollah, che Israele considera un grave rischio per la propria sicurezza, nonché quello di abbattere i residui dell’Isis annidati tra la popolazione civile. Mosca e Damasco si sono attivate, ancorché non sia chiaro se effettivamente i bersagli privilegiati siano quelli indicati da Trump, considerando che anche Israele ritiene necessario intervenire con, per ora sporadici, raid. Ma le conseguenze sono sotto gli occhi, pur disattenti, dell’intera comunità internazionale, bombardamenti russo-siriani a tappeto, imposizione di rese incondizionate ai ribelli, villaggio per villaggio, massicci esodi di civili che si addensano, ormai nell’ordine di 300.000 persone, alle frontiere giordane e israeliane. E peraltro Amman ha buone ragioni per non ascoltare gli appelli dell’Onu di aprire i varchi, perché ospita già quasi 1 milione di rifugiati siriani, e i rischi di destabilizzazione interna sono in agguato.
Quanto a Israele, valgono le note e comprensibili preoccupazioni di sicurezza. Nel frattempo, un secondo fronte si sta aprendo al Centro-Nord, nell’area di Idlib, dove sono state confinate masse di esodati ribelli provenienti da altre aree riconquistate dai raid di Damasco e Mosca, e ora dalla stessa Dara’a. Apparentemente con il tacito accordo di Washington, a giudicare dagli appelli e dalle recriminazioni dell’opposizione nei confronti di un partner ritenuto, a torto o a ragione, se non un alleato vero e proprio quantomeno una sponda amica. Non è ancora chiaro se Idlib verrà anch’essa bombardata e riconquistata da Assad e dai russi, o se l’area verrà invece occupata da Ankara: la Turchia è già presente con le sue forze armate più a Nord, nell’area di Afrin, sempre con il beneplacito di russi e americani. Non è nemmeno sfuggito che al Nord, senza alcuna reazione russa, Trump ha da ultimo organizzato una sorta di «condominio» con i turchi, espellendo i combattenti curdi del Pyd da Manbji dove mantiene una base militare (circa 2000 addetti).

Per Mosca, infatti, l’interesse prioritario non è il Nord, ove pure ha intessuto buone relazioni con i curdi, ma l’Ovest, cioè la costa e l’entroterra mediterranei ove dal 2015 stazionano le sue basi militari. In questo scenario, non è fuori luogo immaginare che prima o poi si consolidi un’intesa russo-americana, che preveda in Siria la permanenza della presenza militare russa e quella di Assad al potere. Se così fosse, sfumerebbe il piano dell’Onu enunciato fin dal giugno 2012 per una transizione comprensiva di tutte le componenti della società siriana, e ad Helsinki la Siria rappresenterebbe una pedina che Trump, nel complesso esercizio di ridefinizione degli equilibri con Putin che egli probabilmente si propone, potrebbe spendere per conquistare terreno su altri scacchieri considerati davvero cruciali.

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direttore@lastampa.it

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