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La Stampa Rassegna Stampa
07.07.2018 Un mondo ebraico semi sconosciuto nel romanzo di Franca Cancogni
Recensione di Elena Loewenthal

Testata: La Stampa
Data: 07 luglio 2018
Pagina: 2
Autore: Elena Loewenthal
Titolo: «In quell'ospizio di Tel Aviv si ricompone la fuga senza fine»

Riorendiamo dalla STAMPA/Tuttolibri di oggi, 07/07/2018, a pag. II con iltitolo "In quell'ospizio di Tel Aviv si ricompone la fuga senza fine", la recensione di Elena Loewenthal

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Elena Loewenthal          la copertina

Sonia è molto anziana. Vive in una confortevole casa di riposo di Tel Aviv, dove a disposizione degli ospiti c’è una ricca gamma di attività ricreative. Sonia è un po’ diversa dagli altri, all’ospizio Ben Gurion. Non perché sia un tipo solitario e si tiri indietro, anzi. E’ socievole, chiacchierona, curiosa. Però la storia che ha da raccontare è molto diversa da quella che avrebbero da raccontare gli altri ospiti, se la raccontassero: loro vengono dalla Shoah, dall’Europa. Per lo più tacciono, del resto. Sonia invece è arrivata in Israele tanti anni prima, ma dalla direzione opposta: Uzbekistan. E le piace molto raccontare. Tanto che lo fa per tutte le quasi quattrocento pagine de Il pane del Ritorno, il romanzo di Franca Cancogni che Bompiani manda in libreria in questi giorni. Classe 1920 e una penna ancora disinvoltamente fluviale, Franca è la sorella ed è stata anche coautrice di Manlio: insieme firmarono nel 1978 il fortunato romanzo Adua. Ha lavorato come sceneggiatrice e firmato decine di traduzioni, tra cui Joyce, Lawrence e Conrad. Autrice semiesordiente, dunque, e non propriamente giovane: eppure Franca Cancogni sembra mettere in queste pagine e nella storia di Sonia tutto l’entusiasmo possibile. Il romanzo è in prima persona, la voce narrante di questa anziana donna sta al centro della storia, che però è sempre attorniata da una folla di parenti, famiglie acquisite, popoli di passaggio. Sonia e sua sorella approdano a Bukhara, Uzbekistan, perché sono rimaste sole al mondo e per vie molto traverse. Trovano una specie di famiglia a casa del ricco mercante Asherov, dove Sonia si ritrova in una condizione a mezza strada fra la servetta e la figlia. L’agiatezza economica e il calore della casa durano per un po’, sino a quando la situazione diventa critica per gli ebrei e tutta la tribù si avvia a una lunga fuga, o forse viaggio, che durerà anni, li porterà in India e in Afghanistan e in Iran, lasciando per strada ampi pezzi di famiglia, seminando luoghi e tempi di gioie e dolori. Sonia approderà infine alle spiagge della Terra Promessa, prima al campo di raccolta di Atlit, dove incontrerà i primi profughi dell’Europa devastata dalla Shoah, poi a Gerusalemme e Tel Aviv. Intanto si è sposata, ha avuto dei figli. Ma le peregrinazioni continuano, sia nello spazio geografico sia avanti e indietro dalla tana dei ricordi. E così lei comincia a raccontare, rivolgendosi di tanto in tanto al suo lettore con quella confidenza che hanno gli anziani socievoli, quelli che hanno ancora tanta voglia di chiacchierare. Cancogni racconta questa storia con una grande dovizia di tutto: volti, vicende, paesaggi. A volte ci si perde un po’ nel racconto, a volte si sentirebbe l’esigenza di fermarsi un attimo in questa abbondanza di cose. Sonia racconta di sé, dei propri familiari, degli affetti che la circondano, delle figure che vanno e vengono vorticosamente nella storia, ma tutto sembra lontano da lei, che immaginiamo accomodata in poltrona in casa di riposo, con tutto il tempo del mondo a disposizione. Racconta soprattutto di un mondo ancora molto poco conosciuto, quello delle comunità ebraiche che vivevano, magari da molti secoli, al di là dell’Europa, verso l’Asia Centrale, lungo la via della seta. Un mondo ricco di colori forti, di orizzonti a perdita d’occhio, ma anche di una solitudine quasi metafisica, a volte. Sonia riesce a vivere intensamente tutto questo, e con la sua memoria prodigiosa lo racconta come fosse una specie di fiaba, non sempre briosa e non sempre confortante, ma ancora viva nella voce narrante malgrado la lontananza nel tempo, nello spazio geografico e in quello dell’anima. Sonia è molto anziana. Vive in una confortevole casa di riposo di Tel Aviv, dove a disposizione degli ospiti c’è una ricca gamma di attività ricreative. Sonia è un po’ diversa dagli altri, all’ospizio Ben Gurion. Non perché sia un tipo solitario e si tiri indietro, anzi. E’ socievole, chiacchierona, curiosa. Però la storia che ha da raccontare è molto diversa da quella che avrebbero da raccontare gli altri ospiti, se la raccontassero: loro vengono dalla Shoah, dall’Europa. Per lo più tacciono, del resto. Sonia invece è arrivata in Israele tanti anni prima, ma dalla direzione opposta: Uzbekistan. E le piace molto raccontare. Tanto che lo fa per tutte le quasi quattrocento pagine de Il pane del Ritorno, il romanzo di Franca Cancogni che Bompiani manda in libreria in questi giorni. Classe 1920 e una penna ancora disinvoltamente fluviale, Franca è la sorella ed è stata anche coautrice di Manlio: insieme firmarono nel 1978 il fortunato romanzo Adua. Ha lavorato come sceneggiatrice e firmato decine di traduzioni, tra cui Joyce, Lawrence e Conrad. Autrice semiesordiente, dunque, e non propriamente giovane: eppure Franca Cancogni sembra mettere in queste pagine e nella storia di Sonia tutto l’entusiasmo possibile. Il romanzo è in prima persona, la voce narrante di questa anziana donna sta al centro della storia, che però è sempre attorniata da una folla di parenti, famiglie acquisite, popoli di passaggio. Sonia e sua sorella approdano a Bukhara, Uzbekistan, perché sono rimaste sole al mondo e per vie molto traverse. Trovano una specie di famiglia a casa del ricco mercante Asherov, dove Sonia si ritrova in una condizione a mezza strada fra la servetta e la figlia. L’agiatezza economica e il calore della casa durano per un po’, sino a quando la situazione diventa critica per gli ebrei e tutta la tribù si avvia a una lunga fuga, o forse viaggio, che durerà anni, li porterà in India e in Afghanistan e in Iran, lasciando per strada ampi pezzi di famiglia, seminando luoghi e tempi di gioie e dolori. Sonia approderà infine alle spiagge della Terra Promessa, prima al campo di raccolta di Atlit, dove incontrerà i primi profughi dell’Europa devastata dalla Shoah, poi a Gerusalemme e Tel Aviv. Intanto si è sposata, ha avuto dei figli. Ma le peregrinazioni continuano, sia nello spazio geografico sia avanti e indietro dalla tana dei ricordi. E così lei comincia a raccontare, rivolgendosi di tanto in tanto al suo lettore con quella confidenza che hanno gli anziani socievoli, quelli che hanno ancora tanta voglia di chiacchierare. Cancogni racconta questa storia con una grande dovizia di tutto: volti, vicende, paesaggi. A volte ci si perde un po’ nel racconto, a volte si sentirebbe l’esigenza di fermarsi un attimo in questa abbondanza di cose. Sonia racconta di sé, dei propri familiari, degli affetti che la circondano, delle figure che vanno e vengono vorticosamente nella storia, ma tutto sembra lontano da lei, che immaginiamo accomodata in poltrona in casa di riposo, con tutto il tempo del mondo a disposizione. Racconta soprattutto di un mondo ancora molto poco conosciuto, quello delle comunità ebraiche che vivevano, magari da molti secoli, al di là dell’Europa, verso l’Asia Centrale, lungo la via della seta. Un mondo ricco di colori forti, di orizzonti a perdita d’occhio, ma anche di una solitudine quasi metafisica, a volte. Sonia riesce a vivere intensamente tutto questo, e con la sua memoria prodigiosa lo racconta come fosse una specie di fiaba, non sempre briosa e non sempre confortante, ma ancora viva nella voce narrante malgrado la lontananza nel tempo, nello spazio geografico e in quello dell’anima. Sonia è molto anziana. Vive in una confortevole casa di riposo di Tel Aviv, dove a disposizione degli ospiti c’è una ricca gamma di attività ricreative. Sonia è un po’ diversa dagli altri, all’ospizio Ben Gurion. Non perché sia un tipo solitario e si tiri indietro, anzi. E’ socievole, chiacchierona, curiosa. Però la storia che ha da raccontare è molto diversa da quella che avrebbero da raccontare gli altri ospiti, se la raccontassero: loro vengono dalla Shoah, dall’Europa. Per lo più tacciono, del resto. Sonia invece è arrivata in Israele tanti anni prima, ma dalla direzione opposta: Uzbekistan. E le piace molto raccontare. Tanto che lo fa per tutte le quasi quattrocento pagine de Il pane del Ritorno, il romanzo di Franca Cancogni che Bompiani manda in libreria in questi giorni. Classe 1920 e una penna ancora disinvoltamente fluviale, Franca è la sorella ed è stata anche coautrice di Manlio: insieme firmarono nel 1978 il fortunato romanzo Adua. Ha lavorato come sceneggiatrice e firmato decine di traduzioni, tra cui Joyce, Lawrence e Conrad. Autrice semiesordiente, dunque, e non propriamente giovane: eppure Franca Cancogni sembra mettere in queste pagine e nella storia di Sonia tutto l’entusiasmo possibile. Il romanzo è in prima persona, la voce narrante di questa anziana donna sta al centro della storia, che però è sempre attorniata da una folla di parenti, famiglie acquisite, popoli di passaggio. Sonia e sua sorella approdano a Bukhara, Uzbekistan, perché sono rimaste sole al mondo e per vie molto traverse. Trovano una specie di famiglia a casa del ricco mercante Asherov, dove Sonia si ritrova in una condizione a mezza strada fra la servetta e la figlia. L’agiatezza economica e il calore della casa durano per un po’, sino a quando la situazione diventa critica per gli ebrei e tutta la tribù si avvia a una lunga fuga, o forse viaggio, che durerà anni, li porterà in India e in Afghanistan e in Iran, lasciando per strada ampi pezzi di famiglia, seminando luoghi e tempi di gioie e dolori. Sonia approderà infine alle spiagge della Terra Promessa, prima al campo di raccolta di Atlit, dove incontrerà i primi profughi dell’Europa devastata dalla Shoah, poi a Gerusalemme e Tel Aviv. Intanto si è sposata, ha avuto dei figli. Ma le peregrinazioni continuano, sia nello spazio geografico sia avanti e indietro dalla tana dei ricordi. E così lei comincia a raccontare, rivolgendosi di tanto in tanto al suo lettore con quella confidenza che hanno gli anziani socievoli, quelli che hanno ancora tanta voglia di chiacchierare. Cancogni racconta questa storia con una grande dovizia di tutto: volti, vicende, paesaggi. A volte ci si perde un po’ nel racconto, a volte si sentirebbe l’esigenza di fermarsi un attimo in questa abbondanza di cose. Sonia racconta di sé, dei propri familiari, degli affetti che la circondano, delle figure che vanno e vengono vorticosamente nella storia, ma tutto sembra lontano da lei, che immaginiamo accomodata in poltrona in casa di riposo, con tutto il tempo del mondo a disposizione. Racconta soprattutto di un mondo ancora molto poco conosciuto, quello delle comunità ebraiche che vivevano, magari da molti secoli, al di là dell’Europa, verso l’Asia Centrale, lungo la via della seta. Un mondo ricco di colori forti, di orizzonti a perdita d’occhio, ma anche di una solitudine quasi metafisica, a volte. Sonia riesce a vivere intensamente tutto questo, e con la sua memoria prodigiosa lo racconta come fosse una specie di fiaba, non sempre briosa e non sempre confortante, ma ancora viva nella voce narrante malgrado la lontananza nel tempo, nello spazio geografico e in quello dell’anima. Sonia è molto anziana. Vive in una confortevole casa di riposo di Tel Aviv, dove a disposizione degli ospiti c’è una ricca gamma di attività ricreative. Sonia è un po’ diversa dagli altri, all’ospizio Ben Gurion. Non perché sia un tipo solitario e si tiri indietro, anzi. E’ socievole, chiacchierona, curiosa. Però la storia che ha da raccontare è molto diversa da quella che avrebbero da raccontare gli altri ospiti, se la raccontassero: loro vengono dalla Shoah, dall’Europa. Per lo più tacciono, del resto. Sonia invece è arrivata in Israele tanti anni prima, ma dalla direzione opposta: Uzbekistan. E le piace molto raccontare. Tanto che lo fa per tutte le quasi quattrocento pagine de Il pane del Ritorno, il romanzo di Franca Cancogni che Bompiani manda in libreria in questi giorni. Classe 1920 e una penna ancora disinvoltamente fluviale, Franca è la sorella ed è stata anche coautrice di Manlio: insieme firmarono nel 1978 il fortunato romanzo Adua. Ha lavorato come sceneggiatrice e firmato decine di traduzioni, tra cui Joyce, Lawrence e Conrad. Autrice semiesordiente, dunque, e non propriamente giovane: eppure Franca Cancogni sembra mettere in queste pagine e nella storia di Sonia tutto l’entusiasmo possibile. Il romanzo è in prima persona, la voce narrante di questa anziana donna sta al centro della storia, che però è sempre attorniata da una folla di parenti, famiglie acquisite, popoli di passaggio. Sonia e sua sorella approdano a Bukhara, Uzbekistan, perché sono rimaste sole al mondo e per vie molto traverse. Trovano una specie di famiglia a casa del ricco mercante Asherov, dove Sonia si ritrova in una condizione a mezza strada fra la servetta e la figlia. L’agiatezza economica e il calore della casa durano per un po’, sino a quando la situazione diventa critica per gli ebrei e tutta la tribù si avvia a una lunga fuga, o forse viaggio, che durerà anni, li porterà in India e in Afghanistan e in Iran, lasciando per strada ampi pezzi di famiglia, seminando luoghi e tempi di gioie e dolori. Sonia approderà infine alle spiagge della Terra Promessa, prima al campo di raccolta di Atlit, dove incontrerà i primi profughi dell’Europa devastata dalla Shoah, poi a Gerusalemme e Tel Aviv. Intanto si è sposata, ha avuto dei figli. Ma le peregrinazioni continuano, sia nello spazio geografico sia avanti e indietro dalla tana dei ricordi. E così lei comincia a raccontare, rivolgendosi di tanto in tanto al suo lettore con quella confidenza che hanno gli anziani socievoli, quelli che hanno ancora tanta voglia di chiacchierare. Cancogni racconta questa storia con una grande dovizia di tutto: volti, vicende, paesaggi. A volte ci si perde un po’ nel racconto, a volte si sentirebbe l’esigenza di fermarsi un attimo in questa abbondanza di cose. Sonia racconta di sé, dei propri familiari, degli affetti che la circondano, delle figure che vanno e vengono vorticosamente nella storia, ma tutto sembra lontano da lei, che immaginiamo accomodata in poltrona in casa di riposo, con tutto il tempo del mondo a disposizione. Racconta soprattutto di un mondo ancora molto poco conosciuto, quello delle comunità ebraiche che vivevano, magari da molti secoli, al di là dell’Europa, verso l’Asia Centrale, lungo la via della seta. Un mondo ricco di colori forti, di orizzonti a perdita d’occhio, ma anche di una solitudine quasi metafisica, a volte. Sonia riesce a vivere intensamente tutto questo, e con la sua memoria prodigiosa lo racconta come fosse una specie di fiaba, non sempre briosa e non sempre confortante, ma ancora viva nella voce narrante malgrado la lontananza nel tempo, nello spazio geografico e in quello dell’anima.

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