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La Stampa Rassegna Stampa
06.07.2018 Addio a Claude Lanzmann, diede la parola ai testimoni che nessuno voleva ascoltare
Commenti di Maurizio Molinari, Elena Loewenthal

Testata: La Stampa
Data: 06 luglio 2018
Pagina: 30
Autore: Maurizio Molinari - Elena Loewenthal
Titolo: «La forza del racconto che protegge a memoria - La parola che dice l’indicibile. Così ci ha costretti a fare i conti con l’orrore del genocidio»

Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 06/07/2018, a pag.30, con il titolo "La forza del racconto che protegge a memoria", il commento del direttore Murizio Molinari; con il titolo "La parola che dice l’indicibile. Così ci ha costretti a fare i conti con l’orrore del genocidio", il commento di Elena Loewenthal.

Ecco gli articoli:

Maurizio Molinari: "La forza del racconto che protegge a memoria"

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Maurizio Molinari

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Claude Lanzmann

Con i 566 minuti di Shoah Claude Lanzmann inaugura nel 1985 il metodo di narrazione dello sterminio nazista che più si adatta alle testimonianze dei sopravvissuti. Chiunque ha conosciuto, incontrato, parlato o anche solo ascoltato un sopravvissuto sa che la parte più difficile della testimonianza è la descrizione di fatti e personaggi la cui brutalità sfida la comprensione. Dunque raccogliere tali testimonianze implica una duplice sfida: ridurre l’entità delle domande per non creare ostacoli all’esposizione del ricordo e accompagnare il sopravvissuto nel rammentare un orrore che è la più profonda delle ferite. Lanzmann ci riesce con un metodo che somma ricerca storica minuziosa su ogni singola vittima, formulazione scarna delle domande per evitare ogni intromissione nel racconto e grande determinazione nel far rimanere l’intervistato sempre nei binari del racconto di fatti.

In questa maniera Lanzmann fa parlare i testimoni della Shoah davanti a una telecamera come se si trovassero con i propri famigliari, gli amici più stretti. Ma non è tutto, perché il regista francese completa il racconto con le testimonianze dei persecutori, come quei contadini polacchi che ricordano di aver offeso i perseguitati mentre erano nei carri bestiame, di aver rubato case e beni ai vicini del villaggio, rivendicando la normalità di tali comportamenti che accompagnarono lo sterminio. Sullo schermo si ha così la sovrapposizione fisica, nello spazio di pochi minuti, della vittima e del carnefice. Entrambi avvolti dall’aspra descrizione della quotidianità del male. Dando, per la prima volta, una visione a tutto tondo della Shoah che resta il miglior antidoto contro chi vuole negare o sminuire quanto avvenne. Per questo nella battaglia immanente per non dimenticare la Shoah l’opera di Lanzmann è destinata a rimanere una risorsa irrinunciabile.

Elena Loewenthal: "La parola che dice l’indicibile. Così ci ha costretti a fare i conti con l’orrore del genocidio"

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Elena Loewenthal

Considerava la morte una bruttura, un’ingiustizia assoluta: «La cosa che mi scandalizza di più al mondo è che si debba morire. Non mi piace la musica e non mi piace morire». Se ne è andato così, ingiustamente, a quasi 93 anni, Claude Lanzmann. Era nato il 27 novembre 1925 a Bois Colombes, nei pressi di Parigi, ma veniva dal profondo di quel mondo ebraico dell’Est Europa di cui raccontò lo sterminio nel film-monumento Shoah: la sua famiglia era arrivata in Francia alla fine del XIX secolo, in fuga dai pogrom. Dell’antisemitismo il giovane Claude aveva avuto un assaggio nel 1938, assistendo alle violenze ai danni di un compagno di liceo che si chiamava Lévy, senza trovare il coraggio di reagire.
Durante la guerra era stato nella Resistenza e da allora la militanza divenne per Lanzmann una compagna di vita. Le Riflessioni sulla questione ebraica di Jean-Paul Sartre, pubblicate nel 1947, furono per lui un momento di svolta ideologica e biografica: all’epoca insegnava a Berlino, dove avviò un seminario sull’antisemitismo.

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Tra Sartre e De Beauvoir
Nel 1949 denunciò la mancata denazificazione della Germania, e lasciò il Paese. Tornò a Parigi, entrò nel comitato di redazione di Temps modernes, si «innestò» nella coppia Sartre-De Beauvoir: fu il compagno di quest’ultima tra il 1952 e il 1959.

Il suo impegno politico non è mai stato convenzionale, ma sempre condito di un individualismo mentale difficile da incastonare in qualsivoglia ideologia. È stato scrittore, reporter, cineasta. Fu in Corea del Nord nel 1958 (ha raccontato di quel viaggio nel film Napalm uscito l’anno scorso), denunciò la repressione in Algeria, si schierò sempre al fianco del Dalai Lama e di Israele. Si racconta nell’appassionante mémoir intitolato La lepre della Patagonia (uscito per Gallimard nel 2009 e l’anno successivo in traduzione da Rizzoli): il romanzo di una vita poliedrica, mai stanca di esperienze fisiche e intellettuali, sempre pronta a riflettere sul presente con quell’autonomia critica che era il suo unico comandamento.

Ma è pur vero che è conosciuto in tutto il mondo soprattutto per Shoah: nove ore e mezzo di documentario realizzato a partire da più di trecento ore di girato, tra il 1974 e il 1981. Il film è uscito nel 1985 ed è non soltanto una pietra miliare della cinematografia contemporanea ma anche, e forse soprattutto, la scoperta di quel passato da parte dell’Europa. La presa di coscienza che bisognava farci i conti. Lanzmann ha portato sullo schermo lo sterminio nazista per mettere lo spettatore nelle condizioni di «riconoscere» quella storia, di dover ammettere che gli appartiene, che non riguarda solo i volti muti delle vittime e le voci pesanti dei testimoni.

È proprio vero che Lanzmann è riuscito a «dire l’indicibile» sul genocidio, usando la parola. Le scene, l’orrore, i camion di gas a Chelmo, Treblinka, le baracche di Auschwitz, il ghetto di Varsavia sono lo sfondo della parola, che è il mezzo con cui quell’orrore diventa un racconto interminabile, che va ben al di là delle sue nove ore e mezzo. Certo, dopo Shoah è venuto l’indimenticabile Schindler’s List, è venuto l’impegno a raccogliere le testimonianze da parte di Steven Spielberg e altri, sono venuti tanti film e una quantità ormai incalcolabile di libri, documentari, rivisitazioni. Ma nulla è vagamente paragonabile a questo film, all’impatto che provocò, all’avvicendarsi di volti, voci, paesaggi sullo schermo. Shoah è stato e rimane l’abc dell’indicibile. Proprio perché Lanzmann si è sempre rifiutato di cercare le ragioni dello sterminio, e considerava osceno come la morte porsi la domanda sul perché, perché quel male non ha un perché, perché l’orrore è tale e basta.

Indignato dall’ingiustizia
Ma anche se ancora di recente aveva lavorato a Les quatre soeurs, quattro film andati in onda nel gennaio scorso sul canale francese «Arte», dedicati a quattro donne travolte dallo sterminio, Lanzmann non è stato solo l’autore di Shoah: è stato un intellettuale eclettico, vitale, sanguigno, sempre coinvolto nel presente, sempre indignato dall’ingiustizia, da qualunque parte provenisse. Chissà che direbbe del Barukh dayan haemet, «benedetto il Giudice di verità» che pronunciamo oggi in ebraico alla sua memoria, lui che era così innamorato della vita da non sentirsi certo «sazio di giorni» come il paziente Giobbe quando lasciò questo mondo.

 

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