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La Stampa Rassegna Stampa
24.06.2018 Turchia: oggi il voto, contro Ergogan le sperane dei laici
Cronache e commenti di Giordano Stabile, Marta Ottaviani

Testata: La Stampa
Data: 24 giugno 2018
Pagina: 10
Autore: Giordano Stabile-Marta Ottaviani
Titolo: «Fra i nazionalisti arrabbiati e le donne velate. Ecco l'onda silenziosa che spinge Erdogan-Giovani e laici, il popolo di Ince sogna nel nome di Ataturk»

La Turchia oggi alle urne. Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 24/06/2018, a pagg.10/11, due servizi di Girdano Stabile e Marta Ottaviani

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Giordano Stabile: " Fra i nazionalisti arrabbiati e le donne velate. Ecco l'onda silenziosa che spinge Erdogan "

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Giordano Stanile

Istanbul - Ince «potrà anche riempire le piazze ma venerdì le moschee erano gremite come non si è mai visto, e sarà quel popolo a vincere». Con il suo berretto da salafita a maglia grigio, i mocassini consumati, Veysel si dirige verso piazza Tandogan, dove sta per cominciare il comizio finale di Devlet Bahceli, il leader del partito nazionalista Mhp, il principale alleato di Recep Tayyip Erdogan. Più per curiosità che per militanza, perché il 68enne pensionato, ex impiegato alla protezione civile, sta piuttosto dalla parte dei movimenti islamici, e considera ancora Erdogan l’unico vero leader. L’alleanza con i «lupi grigi» gli sta bene fino a un certo punto, anche se molti religiosi conservatori ora guardano a Bahceli e fra la gente che sia avvia ci sono parecchie donne velate. I profughi siriani «Non è una gran folla», ammette Veysel, e la piazza mezza vuota fa magra figura rispetto alla fiumana che venerdì aveva accolto il principale rivale di Erdogan, Muharrem Ince appunto. Ma il popolo «silenzioso» sta ancora con il reis. I villaggi, madri e padri di famiglia, la «gente comune» che comunque, nonostante la crisi degli ultimi mesi, «sta molto meglio di vent’anni fa». Erdogan «sa come gestire l’economia e farci restare turchi». L’unico errore è stato accogliere «tutti quei siriani», i rifugiati, che anche qui cominciano a pesare e a diventare capri espiatori per tutte le magagne economiche. «Siamo musulmani, abbiamo aperto le braccia a gente che era nel bisogno, ma ora stanno distruggendo la Turchia, sono parassiti e dopo cinque anni non fanno neppure lo sforzo di imparare il turco, solo arabo», rincara la dose Hatiçe Bekderniv, 32 anni, in tenuta tradizionale, con il fazzoletto e il caftano color cipria, in tinta con la borsetta. Hatiçe lavora in una farmacia e voterà il Mhp alle parlamentari ed Erdogan alle presidenziali. I militanti nazionalisti sono ancora più ruvidi. Urlano e ululano quando il leader Devlet Bahceli alza la voce e i toni: «La Turchia è circondata da nemici, all’esterno e all’interno, dobbiamo essere compatti, vigilanti». Ancora ululati, che sono tutto un programma, e mani alzate con un segno che sembra quello delle corna ma in realtà è la testa stilizzata di un lupo, il simbolo dei nazionalisti. La difesa del Paese «Voterò Erdogan presidente per difendere il mio Paese», conferma Sunih, 62 anni, ingegnere: «Non siamo d’accordo su tutto, questo è chiaro, ma dopo il golpe del 15 luglio questa alleanza è necessaria. Anche Erdogan è cambiato, ha capito che la Turchia è sola contro tutti, l’America, i sionisti. C’è il rischio di un altro colpo di Stato, ci vuole l’uomo forte, con esperienza o ci faranno a pezzi». Anche se lo straniero, e i turchi che lo accompagnano, è visto con diffidenza, il nemico più infido è quello interno, «le spie di Fetullah Gulen» che tramano dappertutto. La retorica dal palco rimbalza e si amplifica fra la folla, che si eccita quando il leader elenca gli avversari da combattere. Insiste anche lui sulla «esperienza», la necessità di un timoniere collaudato, perché sa che molti nel segreto della cabina elettorale esiteranno a mettere la croce su Erdogan, avversario per tanto tempo nel passato. Identità e esperienza Il tema dell’affidabilità è quello scelto dalla campagna del presidente: «In un mondo competitivo – recitano i cartelloni elettorali – serve esperienza». Il vecchio sicuro di fronte al nuovo, al cambiamento, che seduce ma spaventa. «Che cosa diventeremo se smettiamo di essere turchi? Meglio morire di fame ma avere la certezza di uno Stato», insiste Sunih, che ha portato anche il figlio di otto anni e la bambina di dodici: «Voglio che si sentano al sicuro nel mio Paese quanto lo sono dentro casa». Spie e traditori L’ossessione per la sicurezza è l’altro lato della medaglia della paura per «spie e traditori». Nel distretto pedonale di Cankaya, accanto alla statua dei diritti umani, una ragazza china a leggere la dichiarazione delle Nazioni Unite, è stato installato un massiccio gabbiotto della polizia. Gli agenti, in divisa e in borghese, sorvegliano con acribia questa zona di studenti, attivisti, sedi di minuscoli partiti d’opposizione, e scattano a disperdere ogni minimo «assembramento». Un controllo totale del territorio, e dei seggi, che fa temere all’opposizione frodi e manipolazioni. «Abbiamo preso misure a prova di bomba contro i brogli», ha garantito ieri Erdogan. Cinquecentomila osservatori «veglieranno» sullo svolgimento del voto. Ma nella Turchia divisa in due dal referendum pro o contro Erdogan nessuno si fida più dell’altra parte.

Marta Ottaviani: " Giovani e laici, il popolo di Ince sogna nel nome di Ataturk "

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Marta Ottaviani

Istanbul - Comunque vada, due risultati importanti, Muharrem Ince, il candidato del Partito Repubblicano del Popolo (Chp) alla presidenza della repubblica turca, li ha già portati a casa. Il primo è stato quello di trasformarsi da sfidante scelto a caso e di fretta in uomo della provvidenza. Il secondo è quello di aver fatto riscoprire a una parte di Turchia il suo orgoglio laico e la consapevolezza di avere un’opposizione reale allo strapotere di Recep Tayyip Erdogan. Ieri più che un ultimo comizio della campagna elettorale più corta ma intensa della storia recente del Paese è andata in scena una festa. La festa Ince di elettori in piazza ne aveva chiesti cinque milioni, con quel gusto per l’esagerazione che ai turchi piace tanto, anche se sulla spianata di Maltepe, nella parte asiatica di Istanbul, tutta quella gente non ci sta. Ma ne sono arrivati circa un milione, soprattutto giovani, con un entusiasmo che solo pochi mesi fa sarebbe stato impensabile. Un fiume di gente che ha attraversato un quartiere dominato dal partito di Erdogan, ripetutamente chiamato «hirsiz» ossia ladro. Un’affluenza, sotto il diluvio e in mezzo al traffico del sabato che, a differenza di quando i comizi li tiene Erdogan, non è stato bloccato, e che ha meravigliato anche i negozianti del quartiere. «Mai vista una cosa del genere – afferma Ibrahim, che vende abbigliamento sull’Atatürk Caddesi – Arriva gente da stamattina presto». «Questa volta siamo stanchi ed è l’ultima occasione che abbiamo per mettere fine all’era di Erdogan» dice Arzu, che fa la studentessa. Sulla fronte, come migliaia di altre persone, ha porta una fascia rossa con scritto «Atamiz izindeyiz», traducibile come «noi seguiamo il nostro Padre». Dove il «Padre» è sempre uno solo, Mustafa Kemal Atatürk, fondatore di quella nazione laica e moderna, che guardava all’Europa, ma che doveva rimanere profondamente turca. Del resto, il nazionalismo, è stato alla base della campagna elettorale di tutti i partiti, escluso quello curdo, per ovvi motivi. La patria Ince non ha certo fatto eccezione. Durante la sua campagna elettorale ha parlato spesso di quella cosa che per i turchi è fondamentale fino all’indispensabile: la patria. E anche ieri a Istanbul non li ha certo delusi. E mentre la gente urlava «Halk, hukuk, adalet» (popolo, legge, giustizia), Muharrem Ince, ex professore, madre velata e moglie biondo platino ha promesso una Turchia nuova. Che praticamente consiste nell’annullare tutti i provvedimenti presi da Erdogan dopo il golpe e anche quella riforma costituzionale che, se vince, gli darà un potere illimitato. «Se vincerò – ha detto Ince, che indossava un completo blu classico e una cravatta dove dominava il rosso, il colore della Turchia – toglierò lo Stato di emergenza, la magistratura tornerà indipendente». L’unico accenno del suo lungo discorso alla politica estera, Ince lo ha fatto sulla Siria. «Continueremo a combattere il terrorismo» ha detto, riferendosi al Pkk, il Partito dei lavoratori del Kurdistan, ma ha aggiunto: «Mi impegno ad appuntare un ambasciatore in Siria entro 100 giorni. Quattro milioni di siriani (quelli che vivono in Turchia, ndr) torneranno nel loro Paese pacificato». L’affondo L’attacco più grosso a Erdogan, però lo ha fatto sul punto più debole al momento per il presidente in carica; l’economia, che è sempre stata il suo fiore all’occhiello. “Se vinco io – ha tuonato Ince che quanto a carisma ha dimostrato di saper reggere il confronto con il Reis – in Turchia arriverà un’atmosfera di fiducia. Il cambio sul dollaro e sull’euro scenderà. Se vinco io vinciamo tutti». La folla esulta, intona inni kemalisti, inizia a defluire nonostante i mezzi pubblici messi a disposizione dal comune di Istanbul per una manifestazione di queste proporzioni siano scarsi, soprattutto se paragonati all’organizzazione che precede i meeting del partito di Erdogan. «Questa è una giornata importante, abbiamo un nuovo leader» spiega soddisfatto Mustafa che sulle spalle ha la figlia, di appena tre anni «Erdogan è come Saddam e farà la fine di Saddam. Questa volta lo mandiamo a casa, anche se ci saranno dei brogli. Domani migliaia di cittadini vigileranno sulle urne, ci sarà anche chi dormirà in prossimità dei seggi». Vicino, un gruppo di giovani, urla «Mustafa Kemal Askeriyiz», siamo i soldati di Mustafa Kemal Atatürk. È proprio questo, l’unico particolare inquietante. Che questa Turchia laica ritrovata, ma ancora lontana da quella inclusiva di Gezi Parki, si scontri con quella del presidente Erdogan. Non alle urne, ma nelle strade.

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