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La Stampa Rassegna Stampa
17.05.2018 Gaza: i commenti che informano 1
Cronaca di Giuseppe Agliastro, Rolla Scolari intervista Yuval Steinitz, commento di Gianni Vernetti

Testata: La Stampa
Data: 17 maggio 2018
Pagina: 10
Autore: Giuseppe Agliastro - Rolla Scolari - Gianni Vernetti
Titolo: «La Russia critica Hamas e accusa Israele - 'Possibili due Stati per due popoli ma senza Abu Mazen' - La doppia sfida di Hamas»
Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 17/05/2018, a pag.10, con il titolo "La Russia critica Hamas e accusa Israele", la cronaca di Giuseppe Agliastro; con il titolo 'Possibili due Stati per due popoli ma senza Abu Mazen', l'intervista di Rolla Scolari  a Yuval Steinitz; a pag. 25, con il titolo "La doppia sfida di Hamas", il commento di Gianni Vernetti.

Ecco gli articoli:

Giuseppe Agliastro: "La Russia critica Hamas e accusa Israele"

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Giuseppe Agliastro

Gerusalemme dovrebbe essere la capitale di due Paesi indipendenti, la Palestina e Israele: a due giorni dalla contestata inaugurazione dell’ambasciata Usa a Gerusalemme e dalla strage dei palestinesi che - incitati da Hamas - protestavano contro l’occupazione della Striscia di Gaza, Mosca ribadisce la sua posizione sul futuro del Medio Oriente. Al telefono col presidente turco Erdogan - strenuo avversario di Israele che per domani ha convocato a Istanbul un summit dei Paesi islamici - Putin ha esortato a evitare le violenze e a rilanciare il dialogo. Il suo ministro degli Esteri Lavrov da un lato ha condannato gli «estremisti» che «cercano di usare i civili per proteste che possono provocare scontri e vittime», e dall’altro ha puntato il dito contro Israele: «Sono inaccettabili - ha detto - le dichiarazioni secondo cui i civili uccisi sarebbero tutti quanti terroristi, bambini compresi».

La situazione resta estremamente tesa. Israele sostiene che ieri da Gaza sono stati sparati colpi d’arma da fuoco contro i suoi soldati, che hanno risposto bombardando le postazioni di Hamas. Ma lo scontro si riflette anche sul piano politico, con un duello serrato tra Israele e Turchia e l’espulsione di alcuni diplomatici. Nella sfida non sono state risparmiate «umiliazioni» agli avversari: l’ambasciatore israeliano - espulso da Ankara - è stato sottoposto a severi controlli in aeroporto di fronte ai media turchi, e la stessa sorte è toccata poi per ripicca all’incaricato d’affari turco a Tel Aviv, convocato al ministero degli Esteri israeliano. L’Autorità palestinese da parte sua ha richiamato gli ambasciatori da Ungheria, Austria, Romania e Cechia: Paesi che, rompendo il fronte comune europeo, hanno partecipato all’apertura dell’ambasciata Usa a Gerusalemme. E ieri anche il Guatemala ha aperto la sua ambasciata a Gerusalemme.
Lunedì migliaia di palestinesi di Gaza hanno raccolto l’appello di Hamas e si sono lanciati verso i reticolati di confine con Israele. I soldati hanno aperto il fuoco uccidendo oltre 60 persone. «Cinquanta dei martiri erano di Hamas, 12 erano civili», ha dichiarato un esponente della fazione islamica. Una carneficina che si sarebbe potuta evitare ricorrendo a «strumenti non letali», denunciano i vescovi cattolici di Terra Santa. E anche i difensori dei diritti umani accusano Israele di «uso eccessivo della forza».

Rolla Scolari: 'Possibili due Stati per due popoli ma senza Abu Mazen'

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Rolla Scolari

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Yuval Steinitz

Quelli passati sono stati giorni di travaglio per il Medio Oriente: il controverso trasferimento dell’ambasciata americana a Gerusalemme, le violenze che a Gaza hanno fatto oltre 60 vittime, l’uscita degli Stati Uniti dall’accordo sul nucleare, i razzi iraniani su Israele e i raid in risposta. Il ministro dell’Energia israeliano, Yuval Steinitz, ex responsabile per Intelligence e Affari strategici, che siede nel gabinetto di sicurezza del governo, accusa Hamas, gruppo islamista che controlla Gaza, di aver mandato civili a morire, e scherma le critiche di gran parte della comunità internazionale sull’uso eccessivo della forza da parte dell’esercito israeliano. Rivela inoltre come la comune preoccupazione nei confronti dell’Iran stia facilitando contatti tra il suo governo e i Paesi arabi, anche alcuni che non riconoscono Israele. Con il crescere delle nuove priorità regionali legate ai timori su Teheran e le recenti violenze a Gaza, però, l’idea della pace con i palestinesi sembra allontanarsi.
Accusate Hamas di aver mandato civili a morire, la maggior parte della comunità internazionale critica l’eccessivo uso della forza da parte d’Israele. Come si può pensare di tornare da questa situazione a negoziare?
«Ciò che è accaduto a Gaza è una tragedia, siamo molto dispiaciuti. Avremmo voluto prevenire o minimizzare il numero di vittime. Hamas aveva invece detto in anticipo che si aspettava morti. Voleva che la folla si avvicinasse alla barriera».
L’esercito israeliano avrebbe però potuto anticipare uno scenario simile.
«Abbiamo tentato di evitarlo, ma loro lo hanno pianificato. Ci siamo ritirati da Gaza nel 2005, il presidente palestinese Abu Mazen aveva promesso che non ci sarebbero stati lanci di razzi, ma non è stato così. L’embargo su Gaza è una tragedia, ma come migliorare lo standard di vita locale se continuano i lanci di razzi, contrabbandati dall’Iran?».
E’ possibile pensare a nuovi colloqui dopo queste violenze?
«Ho sempre pensato che un compromesso fosse possibile, ma oggi non c’è un partner palestinese. Abu Mazen ha da poco giustificato l’Olocausto, ha detto che il popolo ebraico non esiste. Metà della leadership palestinese è formata da zeloti islamisti, nell’altra metà c’è il leader più antisemita del mondo, più degli iraniani».
L’assenza di negoziati significa la fine della soluzione a due Stati?
«Non penso che l’idea di due Stati per due popoli sia finita, è impossibile però farla avanzare ora. L’Autorità palestinese dovrebbe prima smetterla con l’incitamento antisemita sulle tv, nel sistema scolastico. Basta, i palestinesi dovrebbero mandare via Abu Mazen».
E chi potrebbe sostituirlo?
«Non lo so, ma lui non è un leader eletto, da 12 anni. Non ha portato né democrazia, né pace, né progressi economici».
Lei ha avvertito che Assad potrebbe essere rovesciato nel caso in cui la vicina Siria permetta all’Iran - che ha lanciato razzi contro una vostra base militare - di trasformare il suo territorio in una postazione di lancio. Che cosa vi aspettate ora?
«Quello che abbiamo visto negli ultimi mesi è la realizzazione di un piano per formare in Siria una sorta di estensione geografica dell’Iran, stabilire una forte presenza delle Guardie rivoluzionarie. Il piano non è soltanto lanciare qualche razzo contro Israele, ma costruire basi missilistiche, di difesa anti-aerea, navali, e inviare truppe. Non lo permetteremo. Non vogliamo un conflitto con l’Iran, ma abbiamo enfatizzato che esistono linee rosse e che operiamo prendendole in considerazione».
Israele ha accolto con favore l’uscita dell’America dall’accordo sul nucleare iraniano. Sperate che questo possa portare a un «regime change» a Teheran?
«Fra sette anni, quando scadrà l’accordo, l’Iran potrebbe essere a pochi centimetri dalla produzione di armi atomiche: è necessario aggiustare l’accordo, allungarlo di decenni. L’America farà pressioni all’Iran non soltanto sul nucleare, ma sul suo sostegno a organizzazioni terroristiche come Hezbollah e Hamas, sullo sviluppo di missili a lunga gittata che già possono colpire Israele e che potrebbero presto colpire l’Europa».
Crede che l’Europa cambierà idea sull’accordo?
«Dovrebbe. E’ una vergogna che l’Unione Europea sotto l’ombrello dell’accordo ignori il comportamento iraniano, le minacce di annientamento d’Israele, e commerci con l’Iran mentre questo prepara missili che potrebbero colpire Berlino e Roma».
Paesi arabi che non hanno relazioni diplomatiche con Israele stanno cambiando impercettibilmente atteggiamento a causa del comune interesse anti-iraniano. Si potrebbe arrivare a una normalizzazione?
«C’è un nuovo spirito nel mondo arabo. I leader arabi hanno realizzato che il loro problema non è Israele, ma l’Iran e il terrorismo islamico. Noi possiamo aiutarli contro queste minacce».
State parlando con l’Arabia Saudita?
«Senza entrare nei dettagli, posso dire che parliamo e cooperiamo con molti Paesi e leader arabi. Molti di loro non hanno ancora relazioni diplomatiche con Israele».
Con la scoperta di gas nel Mediterraneo, Israele sta diventando indipendente dal punto di vista energetico. Che impatto ha questo sulla regione? Possono i nuovi giacimenti creare ulteriore instabilità?
«L’obiettivo è quello di usare gas per ridurre l’inquinamento, per migliorare la salute della popolazione, rimpiazzando carbone e diesel. Entro il 2030, tutta l’energia in Israele sarà pulita, vieteremo automobili che non siano elettriche o a idrogeno. Abbiamo già contratti con Egitto, Giordania, e accordi iniziali con Italia e Grecia. Sarà costruito il più profondo gasdotto nel Mediterraneo, verso l’Italia. Per quanto riguarda le tensioni con il Libano sul gas, difenderemo i nostri diritti, ma preferiamo la soluzione diplomatica. Nell’interesse delle parti, credo ci sarà presto un compromesso».

Gianni Vernetti: "La doppia sfida di Hamas"

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Gianni Vernetti

Il 14 maggio di settant’anni fa nasceva lo Stato democratico di Israele: David Ben Gurion lesse la Dichiarazione di Indipendenza il giorno in cui si esauriva il Mandato Britannico ed in seguito alla Risoluzione n.181 delle Nazioni Unite che prevedeva la costituzione di due Stati indipendenti (Israele e Palestina).
Da allora, ogni anno in Israele si celebra Yom Haatzamaut (il giorno dell’indipendenza), giornata da un fortissimo valore simbolico per il mondo ebraico e non a caso scelta dall’Amministrazione Usa per inaugurare la propria nuova ambasciata nella capitale di Israele: Gerusalemme.
Il 15 maggio, ventiquattr’ore dopo, i palestinesi festeggiano invece Yaoum al-Nabka, (il giorno della catastrofe), per ricordare la sconfitta degli eserciti arabi contro gli israeliani nel conflitto del 1948-1949, con l’esodo di 700.000 palestinesi verso i Paesi confinanti.
Sono due narrazioni contrastanti: la nascita di uno Stato democratico in Medio Orente, e la sconfitta in una guerra sbagliata, frutto del rifiuto da parte rilevante del mondo arabo del Piano di Partizione che avrebbe permesso la nascita di uno Stato palestinese accanto ad Israele.

Tutto nasce dal quel rifiuto che da allora ha sempre avuto una doppia valenza: rifiutare lo Stato di Palestina proposto dalla Nazioni Unite, non tanto perché di dimensione minori di quanto atteso, ma perché confinante con lo Stato degli Ebrei che non aveva e non ha alcun diritto di esistere a Gerusalemme, ma neanche a Tel Aviv, Haifa, Be’er Sheva, come ha ieri ricordato, da qualche grotta in Pakistan, Ayman al-Zawahiri, leader di ciò che resta di Al-Qaeda. Quindi la «catastrofe» per la narrativa islamista non è la sconfitta, l’esodo dei palestinesi, bensì la nascita di Israele in quanto tale.
Ma la radicalizzazione dello scontro a Gaza, con migliaia di civili spinti da Hamas e dalle Brigate Ezzedim al Qassam contro la barriera difensiva, con 61 morti e migliaia di feriti nello scontro con l’esercito israeliano chiamato a difendere il proprio territorio, sono il segno di una doppia sfida lanciata da Hamas: contro Israele, ma anche contro Abu Mazen e l’Autorità palestinese per conquistare la leadership di tutto il mondo palestinese.
E in questo disegno Hamas è sostenuta innanzitutto dal’Iran. Fino all’inizio della guerra civile siriana, il quartier generale di Hamas era a Damasco. E nella capitale siriana si è consolidato l’asse Iran-Hezbollah-Hamas, con la regia attenta del generale Qassem Soleimani, capo della Brigata «Gerusalemme», l’unità delle Guardie Rivoluzionarie che ha il compito di armare e finanziare il network degli amici e alleati dell’Iran.
Nonostante il trasloco del quartier generale di Hamas in Qatar, il filo con l’Iran non si è mai spezzato e, a dicembre del 2017, il generale Soleimani ha promosso diversi incontri con il leader di Hamas e della Jihad islamica di Gaza, offrendo sostegno finanziario e militare per alzare lo scontro contro Israele e soprattutto per aumentare l’attività di reclutamento nella Cisgiordania ancora controllata dal «debole» Abu Mazen.

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