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La Stampa Rassegna Stampa
12.05.2018 La politica di Trump e la cecità della UE sul Libano
Analisi di Francesco Semprini, Giordano Stabile

Testata: La Stampa
Data: 12 maggio 2018
Pagina: 18
Autore: Francesco Semprini-Giordano Stabile
Titolo: «Il piano di Trump per far cadere gli ayatollah-Nel regno di Hezbollah dove l'obiettivo è mantenere l'integrità del Libano»

Riprendiamo sue articoli dalla STAMPA di oggi, 12/05/2018 a pag.18/19 di Francesco Semprini e Giordano Stabile.

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"rovesciare il regime, senza guerra", al contrario di Obama, che con il suo patto non aveva fatto altro che rafforzarlo, ecco come la vede Trump, deriso e preso a ceffoni dal mondo democratico occidentale. Poco a poco la verità affiora, e comincia a farsi strada. Era ora.

Francesco Semprini: " Il piano di Trump per far cadere gli ayatollah "

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Francesco Semprini

Atrofizzare i canali finanziari di sostegno all’apparato di regime, e innescare un’implosione indotta della leadership iraniana favorendo un colpo di Stato morbido a Teheran. L’uscita dall’accordo sul nucleare iraniano e il ripristino delle sanzioni sono solo la prima mossa con la quale l’amministrazione americana punta allo «scacco matto» nella madre di tutte le partite sullo scacchiere internazionale, quella con la Repubblica islamica. La conferma giunge dal piano passato di mano tra i consiglieri della Sicurezza nazionale della Casa Bianca, un compendio in tre pagine su come «rovesciare il regime» senza guerra. Crisi interna Ovvero favorire un processo di democratizzazione del Paese attraverso una spaccatura indotta tra popolo e leadership. Un piano messo a punto da Security Studies Group (Ssg), osservatorio dai noti legami con la Casa Bianca e in particolare con John Bolton, lo zar della sicurezza nazionale di Trump. Il piano sembra avere chiara l’impronta del falco neocon, fervente sostenitore della linea interventista nei confronti di Teheran, da lui considerato primo sponsor del terrorismo, già durante la sua reggenza come ambasciatore alle Nazioni Unite per l’amministrazione di George W. Bush. I mujaheddin Così come sono noti i suoi legami con Mojahedin-e Khalq (Mek), i mujaheddin dell’Iran, organizzazione di esuli che punta al rovesciamento della teocrazia Ayatollah. Il movimento armato, nato nel 1965 in opposizione allo Shah Reza Pahlavi, è però esso stesso macchiato di crimini terroristici: è considerato responsabile dell’omicidio di sei cittadini americani e di attentati a società Usa che operavano in Iran prima della rivoluzione khomeinista del 1979. Era stato inserito nella lista delle organizzazioni terroristiche nel 1997 dal dipartimento di Stato, per poi essere abilitato del 2012. La convinzione di Washington è che, per fermare l‘azione di Teheran attraverso le sue procure nella regione, l’America deve essere pronta a mettere in atto un’azione «neutralizzante». Specie nel caso l’Iran lanciasse un attacco su larga scala contro Israele, forze Usa o alleati arabi, si rimettesse al lavoro sulla bomba atomica come minacciato. «Questo non consisterebbe in un’invasione o in una lunga e costosa occupazione», spiega Jim Hanson, direttore di Ssg. Si punta piuttosto al golpe morbido. Debolezza economica «Il popolo iraniano è in condizioni economiche sempre più drammatiche, mentre il regime esporta la ricchezza per soddisfare le sue mire espansionistiche, provocando sollevazioni in tutto il Paese», spiega il dossier Ssg. Il quale fa riferimento anche al comando Irgc, l’entità considerata dagli Usa la cabina di regia di gran parte delle attività economiche iraniane con una forte influenza nella politica del Paese. A gestirla è Al Quds, forza di élite della Guardia Rivoluzionaria di Teheran. A loro fanno capo sei individui e tre entità (società di facciata e trader di valuta), colpiti da sanzioni varate dal Tesoro Usa con l’accusa di sostenere il terrorismo veicolando valigette di biglietti verdi verso le cellule operative negli Emirati arabi uniti.

Giordano Stabile: " Nel regno di Hezbollah dove l'obiettivo è mantenere l'integrità del Libano "

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Giordano Stabile           Il premier libanese Hariri

Il Libano è ormai una colonia di Teheran, dove il movimento terrorista Hezbollah -80.000 miliziani  presenti in Siria agli ordini dell'Iran- controllano il potere reale. Il primo ministro Hariri dice di volere la sicurezza e la stabilità, non può dire altro, ne va della sua vita. Ma l'Europa finge di non saperlo, troppo impegnata a controllare se la difesa di Israele non sia 'sproporzionata'.

Il regno di Hezbollah, dahiyah, si protende fino nel cuore di Beirut, a poche centinaia di metri dal Grand Serail, il palazzo del governo, dove la strada a scorrimento che porta a Sud verso l’aeroporto si congiunge con le zone residenziali che danno sul mare. Dahiyah significa «quartiere» ed è diventato il «quartiere per antonomasia», quello abitato dagli sciiti, il 30% della popolazione della capitale e di tutto il Libano. Lo stacco visivo è segnato dalla stato degli edifici, in media più sgarrupati rispetto agli isolati confinanti, investiti in pieno dalla «ricostruzione» del dopoguerra che ha stravolto la città. Le bandiere nere con la scritta rossa «ya hussein» sono un altro distintivo, come le telecamere agli ingressi delle strade, collegate a centri di controlli dove ufficiali di Hezbollah, spesso reduci della varie guerre con in Israele o in Siria, controllano il flusso di auto e pedoni. Città divisa Il confine invisibile viene oltrepassato dalla più importante linea di autobus, la numero 4, che collega il quartiere sciita ad Hamra, e ai numerosi ministeri dove lavorano molti pendolari. Più che autobus sono vecchi minivan Hyundai, anneriti dall’aria pestilenziale di Beirut e mezzo scassati. Il biglietto costa mille lire ed è il mezzo più economico in città, da prendere al volo con un cenno all’autista perché non esistono fermate riconoscibili. Anche per scendere si va a richiesta, come in un taxi collettivo. C’è un clima conviviale e si scatena la solita ironia tagliente dei beirutini. «Binzel hon, tahet al-jizir». «Fammi scendere qui sotto il ponte», dice un ragazza all’autista. «No, non scherziamo - è la replica -. Metti che Israele comincia a bombardare, lo sai come gli piacciono i ponti». La paura di una guerra si stempera in un sorriso ma lo choc del 2006, quando l’aviazione israeliana demolì metà delle infrastrutture del Paese, è ancora forte. L’affermazione Il tema delle elezioni la fa da padrone. Hezbollah con gli alleati sciiti, cristiani e indipendenti ha preso 69 seggi su 128 e ridimensionato il premier sunnita Saad Hariri. Più si scende verso Sud più spiccano i cartelli «Amal u Wafa», speranza e lealtà, l’alleanza elettorale sciita che ha fatto il pieno da Beirut Sud in giù, avvantaggiata anche dall’arrivo al voto di oltre 800 mila giovani almeno 21enni rispetto alle ultime elezioni del 2009, con un percentuale di sciiti ancora più alta rispetto alla media. Diyah, 25 anni, studia architettura e abita a Ras al-Nabaa, una zona ancora abbastanza mista. Ha vissuto anche in Olanda e anche se è stata la sua prima volta alle urne «non crede già più nella politica». Alla fine ha votato per un indipendente ed è soprattutto contento per la sconfitta di Hariri, «un debole, pronto a svendere il Paese, e a servire il padrone che gli conviene». Il «sequestro» del premier La vicenda del «sequestro» del premier in Arabia Saudita ha inciso. Molti elettori sunniti, soprattutto a Beirut, sono rimasti a casa, per l’umiliazione subita dal loro leader, e anche perché alla fine Hariri è rimasto nel patto di governo con il «nemico» Hezbollah. Gli sciiti invece gli concedono l’onore della armi. «Siamo un Paese piccolo, tutti ci vogliono mettere i piedi in testa», commenta Zaynab, 22 anni, con il tradizionale fazzoletto beige chiaro: «I compromessi sono necessari, se vogliamo restare uniti». Il giudizio su Hezbollah è positivo soprattutto perché «ci ha difesi», anche se non approva l’intervento in Siria e «tutti quei ragazzi mandati a morire». La strategia politica Sono sentimenti diffusi e ne ha tenuto conto Hassan Nasrallah nel discorso di lunedì per celebrare la vittoria «politica e morale», che «garantisce la resistenza» ma anche ha tenuto bassi i toni con Israele, toccato temi domestici, come il sistema proporzionale che garantisce «rappresentanza per tutti» e la necessità di «cooperare» fra le fazioni per risolvere i problemi della vita quotidiana. Analisti regionali, come Elijah Magnier, ritengono che il Partito di Dio punti a trasferire le tensioni con Israele sul fronte in Siria, ormai il ring di tutte le guerre regionali. Teheran è d’accordo perché vuole preservare la vittoria politica degli alleati in Libano, e ora forse in Iraq, senza coinvolgere direttamente questi due Paesi nel confronto militare con Israele. Hezbollah, partito e forza armata, radicato in Libano ma parte dell’«internazionale sciita», deve tenere insieme due nature a volte inconciliabili. Finora c’è riuscito, ma per quanto?

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