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La Stampa Rassegna Stampa
20.03.2018 Torino: ragazzi cristiani, drusi e musulmani a difesa del proprio Paese, Israele
Commento di Fabrizio Assandri

Testata: La Stampa
Data: 20 marzo 2018
Pagina: 57
Autore: Fabrizio Assandri
Titolo: «Se un ragazzo arabo difende Israele»
Riprendiamo dalla STAMPA - TORINO di oggi, 20/03/2018, a pag. 57, con il titolo "Se un ragazzo arabo difende Israele", il commento di Fabrizio Assandri.

Lo stesso evento, questa sera a Milano, Palazzo Reale, ore 17,30, introdotto da Elena Loewenthal

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Fabrizio Assandri

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Muhammad Ka’biya, Lorene Khateeb, Jonathan Nizar Elkhoury

La difesa di Israele da chi non ti aspetti: un giovane musulmano, un cristiano gay e una donna drusa. «Nel 1936 la leadership araba voleva uccidere Alexander Zaid, un leader sionista: mio bisnonno ha protetto lui e la sua famiglia perché nella tradizione musulmana e beduina è vietato uccidere donne e bambini». Muhammad Ka’biya spiega che quello è stato il primo contatto della sua famiglia, beduina e islamica tradizionalista, con gli ebrei. Un legame diventato indissolubile: lui ha fatto il servizio militare nelle squadre di salvataggio dell’aeronautica israeliana. «Lo stato d’Israele dà a tutti la possibilità di integrarsi - dice - ci sono giudici della corte suprema e direttori di ospedali arabi. Ma a Gerusalemme Est ci sono arabi che non vogliono la cittadinanza israeliana, a loro dico: allora andate a vivere nei Territori». La via per la pace? «È semplice: i terroristi palestinesi abbandonino le armi».

La barba lo fa sembrare più grande dei suoi 27 anni. Studia Scienze politiche, dopo aver studiato dai francescani, «perché hanno una delle migliori scuole del Paese». È un vero groviglio intricato di religioni, popoli, culture e identità, quello che Muhammad porta a Torino insieme a Jonathan Nizar Elkhoury, di famiglia cristiana, e Lorene Khateeb, ragazza drusa del villaggio di Smea in Galilea. Le loro voci aiutano a scomporre un orizzonte che può sembrare monolitico.

Sono tre giovani israeliani che appartengono a minoranze, «anche se noi ci sentiamo israeliani e basta, perché siamo integrati: ci definiamo minoranza solo nelle nostre conferenze all’estero», aggiunge Jonathan, 25 anni, di Haifa, che studia Comunicazione e fa parte di un’altra minoranza, quella gay. E ancora: sua madre è cattolica, il padre greco-ortodosso. «Le differenze sono la nostra ricchezza». Sono stati invitati per due incontri (ieri e oggi) dall’ambasciata israeliana. Sono vicini all’associazione «Reservist on duty», istituita da soldati e ufficiali di combattimento israeliani che vogliono difendere lo Stato d’Israele «dalla troppa disinformazione, secondo cui chi non è ebreo vive in una sorta di apartheid. È tutto l’opposto», dice Jonathan.

Hanno identità molto diverse ma la pensano allo stesso modo su Israele. La loro è una militanza. Jonathan, per esempio, è andato in giro per 4 ore ad Haifa con un grosso crocifisso al collo, per un video-risposta su Youtube a quello virale dell’ebreo con la kippah in testa per le strade di Parigi, che ha collezionato insulti e sputi. «Non mi ha notato nessuno: Israele è il migliore posto in cui vivere se sei una minoranza».
La voce di questi tre ragazzi, sempre con il sorriso e con il cellulare in mano, com’è normale a quest’età, è la voce di una sola parte del conflitto israelo-palestinese. Ma lascia intravvedere le contraddizioni e il magma che ribolle. Jonathan racconta che la sua famiglia ha dovuto lasciare il Libano: «Mio padre faceva parte dell’esercito che appoggiava Israele contro Hezbollah. Anche ad Haifa c’è chi ci considera traditori, per questo ho studiato nella scuola ebraica. C’erano dei cristiani che dicevano: non venite nella nostra parrocchia o nel nostro villaggio». Mohammad aggiunge: «Ho amici palestinesi che la pensano come me, altri dicono che Israele non dovrebbe esistere. Ma restiamo amici». Insomma: quella dei tre giovani è una delle tante possibili voci. Ammette Jonathan: «Non posso parlare a nome di tutti i cristiani». Però se il Vaticano si preoccupa perché Trump vuole dichiarare Gerusalemme capitale di Israele, «ci sono tanti preti che in privato ti dicono che sono d’accordo con Trump», dice Jonathan.
Non ci sono solo l'etnia o la religione: anche il genere crea barriere. Lo sa bene Lorene, 21 anni, che studia sociologia, e sostiene progetti per l’integrazione delle donne, incoraggiandole a superare i ruoli femminili tradizionali. Lorene è drusa, una comunità araba nata da uno scisma nell’Islam, «ma in Israele non ci trattano come eretici». La pace? «Quello che facciamo noi, dialogando e con questi tour per parlare di Israele, spero serva».

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