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La Stampa Rassegna Stampa
18.02.2018 Anche sull'Iran Trump mantiene la parola
Editoriale di Maurizio Molinari, cronaca di Alberto Simoni

Testata: La Stampa
Data: 18 febbraio 2018
Pagina: 1
Autore: Maurizio Molinari-Alberto Simoni
Titolo: «La strategia per fermare gli ayatollah-Il monito degli Usa all'Europa 'fermiamo l'Iran '»

Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 18/02/2018, a pag-1/19 l'editoriale di Maurizio Molinari, cui segue la cronaca di Alberto Simoni, due servizi che informano sui rapporti con l'Iran degli Usa, una eccezione tra i nostri giornaloni, abituato a suonare la stessa musica anti-Trump e filo-Iran.

Maurizio Molinari: " La strategia per fermare gli ayatollah "

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Maurizio Molinari

Stati Uniti ed Europa hanno iniziato contatti informali per arrivare ad un approccio comune all’Iran degli ayatollah. Il primo intento è un miglioramento dell’accordo sul nucleare iraniano siglato a Vienna il 14 luglio 2015 e ratificato dalla risoluzione 2231 del Consiglio di Sicurezza dell’Onu. A chiedere una revisione del «Joint Comprehensive Plan of Action» (Jcpoa) è la Casa Bianca ritenendolo il «peggior accordo di sempre» per tre ragioni convergenti addebitate agli errori negoziali commessi da Barack Obama: ha una durata limitata di 15 anni e dunque offre a Teheran la possibilità di diventare una potenza nucleare; non obbliga Teheran a sottoporsi a ispezioni a sorpresa nei siti militari dove in passato sono avvenute attività illegali; non include limiti ai vettori balistici che possono trasportare armi nucleari. Il presidente americano Donald Trump si è rifiutato di certificare il rispetto dell’accordo di Vienna da parte di Teheran, rinviando l’adozione di nuove sanzioni all’Iran fino a maggio con l’evidente intenzione di offrire agli alleati europei l’opportunità di migliorare il testo prima di farlo cadere. Le sanzioni Usa minacciano di colpire i legami economici che Teheran sta costruendo con molteplici Paesi europei e asiatici. Francia, Gran Bretagna e Germania - i Paesi Ue protagonisti del negoziato di Vienna - hanno reagito in due tempi: prima si sono pronunciati assieme, all’unisono ed a fianco al ministro degli Esteri Ue Federica Mogherini, in difesa del trattato chiedendo agli Usa di «non abbandonarlo», ma poi hanno iniziato a mostrare significative aperture agli Stati Uniti. La prima e più importante è venuta da Emmanuel Macron, presidente francese, che il 14 febbraio si è detto favorevole a «mettere sotto sorveglianza il programma missilistico iraniano» in quanto «in Yemen e Siria pone pericoli ai nostri alleati». Macron propone «un ciclo di negoziati fra i membri permanenti del Consiglio di Sicurezza Onu e gli attori regionali in Medio Oriente» per affrontare il tema della proliferazione balistica iraniana evidenziato dagli attacchi dei ribelli yemeniti houthi contro l’Arabia Saudita, dalle migliaia di missili in possesso di Hezbollah in Libano e dalla costruzione di fabbriche di vettori iraniani in Siria. Da Londra è stato invece Alistair Burt, ministro di Stato per il Medio Oriente, a far sapere che «non vogliamo far cadere l’accordo di Vienna e dunque stiamo affrontando le preoccupazioni espresse dagli Usa» attraverso i messaggi recapitati dal segretario di Stato Rex Tillerson. In coincidenza con tali dichiarazioni Parigi e Londra hanno invitato l’Italia a partecipare al gruppo di contatto sull’Iran - che include anche la Germania - anche a seguito delle dichiarazioni fatte dal capo della Farnesina, Angelino Alfano, sulla proliferazione missilistica iraniana e il suo impatto destabilizzante in Medio Oriente. Nel primo incontro di questo gruppo Eu4 si è discusso ieri, a margine della conferenza sulla sicurezza in corso a Monaco di Baviera, di Yemen lasciando intendere la volontà europea di collaborare con la Casa Bianca nel ridurre l’impatto delle «guerre per procura» che Teheran conduce in Medio Oriente «ripetendo ovunque la formula degli Hezbollah» come spiegano a Washington. La sovrapposizione fra volontà di rafforzare l’accordo di Vienna sul nucleare e necessità di arginare l’espansionismo iraniano in Medio Oriente disegna la cornice di un dialogo Usa-Ue che punta a definire un nuovo, complessivo, approccio alla Repubblica Islamica.

Alberto Simoni: " Il monito degli Usa all'Europa 'fermiamo l'Iran "

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Alberto Simoni

Washington minaccia, gli europei perseguono il dialogo con l’Iran che replica agli americani e si siede al tavolo con gli emissari del Vecchio Continente. Alla Conferenza sulla Sicurezza di Monaco di Baviera dietro le quinte si giocano due partite, ma il filo conduttore è unico: pressing per spingere Teheran alla moderazione. Così se il Consigliere per la Sicurezza di Trump Herbert R. McMaster dice che «è il tempo di agire», la diplomazia europea si muove in modo felpato. Una morsa. Mentre il generale cui Trump ha affidato i dossier caldi, snocciola le responsabilità dell’Iran nel sostegno al terrorismo e nel destinare fondi per milizie e gruppi - sul modello del libanese Hezbollah - per destabilizzare Siria, Yemen e Iraq e muovere guerre per procura, l’Italia entra ufficialmente nel gruppo di contatto europeo. Gli E3 (Francia, Regno Unito e Germania) diventano E4. In un incontro ieri mattina a margine della 54a conferenza bavarese, i responsabili degli uffici politici dei quattro grandi Paesi della Ue ed emissari dell’Unione hanno visto il viceministro degli Esteri di Teheran Araqchi e discusso di crisi regionali: in agenda lo Yemen. Per il ministro Angelino Alfano questo round «è un ottimo passo nella giusta direzione». Negli ambienti diplomatici si respira un cauto ottimismo: è apparsa infatti una volontà di dialogo di Teheran. Da sempre Bruxelles ha scelto un approccio opposto a quello statunitense e ora questo step è un approfondimento ulteriore. Lunedì e martedì in Kuwait l’Alto rappresentante per la Politica estera Ue Federica Mogherini ha visto il ministro degli Esteri Javad Zarif. Parlare di «questioni e sicurezza regionale» fra le parti è consuetudine, fanno sapere da Bruxelles. Washington non dialoga ma ha ben presente il tema della stabilità mediorientale. McMaster è stato lapidario in Germania: non solo ha detto che Teheran ricorre a milizie per perseguire i propri fini in Iraq, Libano, Siria e Yemen ma anche che questi gruppi ora «hanno armi così potenti da poter rovesciare i governi arabi». Da qui la paura che un alto diplomatico Usa ben illustra: siamo sicuri - è la domanda - che Teheran potrà controllare fino in fondo queste milizie? Servono anche per questo - è il ragionamento a Washington - sanzioni, misure diplomatiche, e soprattutto tagli dei fondi per sottrarre risorse al regime. È il ventaglio di opzioni che McMaster ha sintetizzato ricorrendo al verbo «agire». La forza economica del regime poggia sui Guardiani della Rivoluzione che controllano le leve del sistema produttivo. Ecco perché McMaster non ha avuto tentennamenti nell’invocare cautela negli affari con la Repubblica islamica riferendosi alla «business intelligence»: serve capire realmente dove finiscono i quattrini che le imprese straniere introducono nel Paese poiché «chi investe in Iran rischia di investire nelle Guardie della Rivoluzione, e permette loro di continuare a uccidere». McMaster cita esplicitamente la Germania e il Giappone. La strategia europea e pure, come sta emergendo anche quella Usa, è distogliere tutte le attenzioni dal dossier nucleare. Si rischierebbe un frontale improduttivo con il regime. Il presidente Rohani dall’India ha ribadito che il suo Paese rispetta l’intesa. L’accordo è del 2015 e anche dentro l’Amministrazione Trump ci sono diverse voci. I militari lo considerano un patto da preservare pur se non perfetto Così meglio puntare i fari sulla (in)stabilità regionale e sul ruolo iraniano. Lunghezza d’onda sulla quale è sintonizzata anche Israele. Oggi Netanyahu parlerà alla Conferenza (sarà seguito da Zarif) e si prevede che darà una sorta di sveglia all’Occidente: fermate l’Iran e il suo attivismo in Siria - dirà in sintesi - se volete evitare la guerra.

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