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La Stampa Rassegna Stampa
28.01.2018 La rete musulmana del terrorismo, a Como di padre in figlio
Analisi di Lorenzo Vidino

Testata: La Stampa
Data: 28 gennaio 2018
Pagina: 7
Autore: Lorenzo Vidino
Titolo: «Dalla provincia alla Siria, quando la jihad è di famiglia»

Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 28/01/2018, a pag.7 con il titolo "Dalla provincia alla Siria, quando la jihad è di famiglia" l'analisi di Lorenzo Vidino

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Lorenzo Vidino                 Padre e figlio terroristi

L’operazione antiterrorismo, sagacemente battezzata dagli inquirenti «talis pater», che venerdì scorso ha portato all’arresto a Como del cinquantunenne egiziano Fayek Shebl Ahmed Sayed e all’emissione di un mandato di arresto per il figlio ventiquattrenne Saged, porta alle luce varie importanti dinamiche del jihadismo italiano. La prima, più lampante, è quella della radicalizzazione di interi nuclei familiari. Il padre, infatti, era un veterano del conflitto bosniaco, un antesignano di quelli che oggi comunemente chiamiamo “foreign fighter”, che aveva combattuto con milizie arabe a fianco dei bosniaci musulmani contro serbi e croati. Insieme alla moglie aveva poi allevato i figli al credo jihadista. Il fratello insultato Saged era l’orgoglio di casa, emulando le gesta del padre vent’anni dopo partendo per la Siria per unirsi prima a Jabhat al Nusra, il gruppo jihadista di matrice qaedista rivale dello Stato Islamico, e poi alle truppe del Califfato. I suoi genitori gli mandavano 200 euro al mese e lo glorificavano, mentre chiamavano «cane» il fratello minore che invece preferiva frequentare ragazze italiane. Questa dinamica non è isolata e, secondo un database dell’Ispi, altri tra i 130 jihadisti partiti dall’Italia per la Siria sono «figli d’arte». È poi da notare che il padre facesse parte del nucleo storico della famigerata moschea milanese di viale Jenner. Fu proprio durante il conflitto bosniaco che viale Jenner balzò agli onori della cronaca allorché il suo imam, l’egiziano Anwar Shabaan, divenne il leader del battaglione dei mujaheddin arabi in Bosnia e la moschea stessa tappa obbligata per le centinaia di foreign fighter che da tutto il mondo si recavano a combattere nei Balcani. Un decennio di inchieste su vari network legati alla moschea ne hanno ridotto la centralità nella galassia jihadista, ma rimane un luogo cruciale del jihadismo non solo italiano ma europeo. Ed è così che funziona il jihadismo europeo, attraverso hubs, centri di gravità attorno ai quali orbitano generazioni di militanti, siano essi all’inizio del proprio percorso di radicalizzazione o combattenti navigati. È questo il fattore che spiega il paradosso per cui, per esempio, in grandi città con una forte presenza musulmana come Roma o Palermo non ci sono praticamente mai stati casi importanti di terrorismo né si sono viste partenze di foreign fighter mentre si sono riscontrate concentrazioni sproporzionate di jihadisti nella tranquilla provincia lecchese e nel comasco, a San Donà di Piave o a Ravenna. In queste tranquille realtà, come anche in grandi città come Torino o Milano, esistono dei mini-focolai di radicalizzazione, dei «cattivi maestri» che attraverso il proprio carisma e attivismo attraggono attorno a sé un piccolo seguito. Ci sono eccezioni, ma la radicalizzazione è spesso una dinamica di gruppo, che avviene attorno a imam radicali, gruppi di amici, o nuclei familiari. L’ultima dinamica evidenziata dal caso talis pater è quella del ritorno dei foreign fighter. Gli inquirenti, infatti, hanno parlato di «ragionevoli motivi perché il ragazzo possa tornare in Italia o in Europa». È l’incognita che tiene banco nell’antiterrorismo di tutto il mondo: cosa succederà alle decine di migliaia di foreign fighter che si sono uniti allo Stato Islamico adesso che il Califfato è stato smantellato? Molti sono morti o sono stati detenuti in Iraq o Siria, ma circa mille dei cinquemila foreign fighter europei sono tornati nel nostro continente (in Italia il numero è molto contenuto, attorno alla dozzina). Il problema del ritorno Per quanto la cosa possa stupire, non sempre li si può arrestare. In certi Paesi - non l’Italia - beneficiano di lacune legislative e in tutti non è sempre facile produrre prove della militanza in gruppi terroristi. Il risultato è che la maggior parte dei foreign fighter ritornati in Europa sono in libertà. Non tutti sono pericolosi. Alcuni tornano delusi dall’esperienza e senza alcun interesse a continuare la militanza. Ma molti invece sono altamente radicalizzati. È probabile che alcuni di loro compiranno attacchi per tenere alta la bandiera dello Stato Islamico. E molti di loro diventeranno come il padre di talis pater, veterani della jihad che, insieme a internet, radicalizzeranno una nuova generazione di adepti. È così che, sepolto il Califfato, si perpetreranno comunque il suo messaggio e la sua minaccia.

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