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La Stampa Rassegna Stampa
23.01.2018 Turchia contro i kurdi, l'Occidente deve intervenire contro Erdogan
Cronaca di Giordano Stabile, commento di Gianni Vernetti

Testata: La Stampa
Data: 23 gennaio 2018
Pagina: 13
Autore: Giordano Stabile - Gianni Vernetti
Titolo: «Siria, Erdogan allarga il fronte contro i curdi - Erdogan, l'attacco contro i curdi in Siria sfida l'Occidente»

Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 23/01/2018, a pag. 13 con il titolo "Siria, Erdogan allarga il fronte contro i curdi" la cronaca di Giordano Stabile; a pag. 25, con il titolo "Erdogan, l'attacco contro i curdi in Siria sfida l'Occidente", il commento di Gianni Vernetti.

Ecco gli articoli:

Giordano Stabile: "Siria, Erdogan allarga il fronte contro i curdi"

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Giordano Stabile

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Recep Tayyip Erdogan

 

 

Le forze armate turche, con gli alleati arabo-siriani, avanzano in profondità nel territorio di Afrin, puntano anche sulla città di Manbij, e i guerriglieri curdi dello Ypg temono di essere stati «traditi» e sacrificati da un accordo segreto fra Turchia e Russia, che prevede il loro ridimensionamento in tutto il Nord della Siria. Le operazioni di terra di «Ramoscello di ulivo», cominciate domenica, ieri sono entrate nel vivo. Con la copertura dell’artiglieria turca le formazioni dell’Esercito libero siriano (Fsa) hanno aperto un terzo fronte, sono entrate nelle cittadine di Sheikh Zuhur, Marso, Haftar e hanno preso la cima strategica che domina la vallata fino ad Afrin, il Jabal Bahsaya. Secondo il comando turco le linee di difesa dello Ypg danno segni di cedimento e la conquista di Afrin potrebbe essere imminente. Il presidente Recep Tayyip Erdogan ha esortato ancora una volta i militari. «Siamo determinati. Prenderemo Afrin – ha detto in un comizio -. Non faremo passi indietro. Ho parlato con i nostri amici russi. Abbiamo un accordo». Il capo di stato maggiore, generale Hulusi Akar, ha ribadito che «le operazioni continueranno finché l’ultimo terrorista sarà neutralizzato». Ma fino a dove? Il «governo transitorio siriano», braccio politico dell’Esercito libero siriano, ha annunciato ieri l’allargamento dell’operazione verso la città di Manbij, che lo stesso Erdogan aveva citato fra gli obiettivi sabato scorso. Fonti vicine al governo di Damasco confermano spostamenti di truppe verso Manbij, strappata all’Isis dagli stessi curdi nel 2016 con l’appoggio americano. I dirigenti politici dello Ypg vedono con il massimo allarme queste mosse. Da Kobane denunciano anche una concentrazione di truppe turche, «almeno mille soldati», lungo la frontiera vicino a Tell Abyad, e bombardamenti sui villaggi di Amude e Dirbespiye, in provincia di Hasakah. Segnali che confermano il «piano russo-turco» per allargare le operazioni, mettere in ginocchio lo Ypg, e di conseguenza anche «in una brutta situazione» i duemila soldati americani presenti in Siria. Gli uomini dello Ypg a Kobane sostengono che il piano è stato elaborato nell’ultimo vertice Putin-Ergogan-Rohani a Soci. Tutto è cominciato con la defezione due mesi fa del comandante delle Forze democratiche siriane (Sdf) Talal Silo, fuggito in Turchia. Le Sdf sono formate da combattenti curdi e arabi addestrati dagli americani per liberare Raqqa dall’Isis. Il comandante Silo ha fornito una montagna di informazioni ai servizi turchi, in particolare sulle strutture di comando dello Ypg e delle Sdf, a suo dire strettamente legate a quelle del Pkk in Turchia. Secondo i curdi il suo compito è in realtà quello di dividere le Sdf e portare i reparti arabi dalla parte dei turchi o del governo di Bashar al-Assad. Il piano «russo-turco» prevede un’offensiva sui più fronti per costringere lo Ypg a spostare tutte le forze al confine. A quel punto i reparti «traditori» dell’Sdf si muoveranno nella zona di Raqqa, forse in accordo con i governativi, e stringeranno i curdi in poche enclave attorno a Kobane, Hasakah e Qamishlo. In questo modo Assad si riprenderebbe gran parte dei territori, e per le truppe Usa la situazione diventerebbe insostenibile. Lo Ypg sta mobilitando «40 mila uomini», e ha avuto la promessa di aiuti da parte dei «fratelli in Iraq». Ma la situazione resta difficile. Soltanto ad Afrin i turchi hanno a disposizione 15 soldati più 25 mila miliziani arabo-siriani. E l’esercito di Ankara nel complesso è forte di 350 mila uomini. Oltre al «tradimento» russo brucia la prudenza dell’America, che si è limitata a chiedere alla Turchia di «esercitare moderazione nelle azioni militari e nella retorica, di assicurare che le operazioni siano limitate nello scopo e nella durata, e di garantire che gli aiuti umanitari continuino evitando vittime civili». Senza l’appoggio Usa, temono a Kobane, «ad Afrin sarà un massacro».

Gianni Vernetti: "Erdogan, l'attacco contro i curdi in Siria sfida l'Occidente"

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Gianni Vernetti

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Una manifestazione per il Kurdistan

Pochi giorni fa alla Stanford University, il segretario di Stato Rex Tillerson ha annunciato la scelta di mantenere una presenza militare americana nel Nord della Siria a tempo indeterminato per combattere Isis e Al-Qaeda e per limitare l’influenza crescente dell’Iran in Medio Oriente. Non solo. Tillerson ha anche aggiunto che le sette basi americane installate nel Rojava curdo dalle forze speciali diventeranno permanenti. Un cambio di rotta radicale, dunque, che vede l’amministrazione Usa fissare 5 obiettivi in Siria: sconfiggere in modo definitivo Isis e Al-Qaeda; favorire il cambio di regime e la dipartita di Bashar al-Assad; porre un freno significativo alle ambizioni regionali dell’Iran; creare condizioni di sicurezza ottimali per il ritorno dei rifugiati; eliminare in modo definitivo ogni residuo di armi chimiche.

Un’amministrazione americana nuovamente determinata in Medio Oriente che per la prima volta chiede il cambio di regime in Siria e soprattutto indica nell’Iran il vero pericolo per la stabilità regionale. Il disegno della «Mezzaluna iraniana» va fermato, impedendo la continuità territoriale fra milizie al soldo di Teheran e regimi amici dall’Iran al Libano, passando per Iraq e Siria. Per raggiungere questo obiettivo l’alleanza con le milizie curde di «Ypg» nel Nord della Siria era ed è strategica.
Dalla resistenza a Kobane, fino alla caduta ed alla liberazione di Raqqa, le forze speciali britanniche, francesi, americane e canadesi hanno formato e sostenuto un esercito di liberazione (Sdf, le Forze democratiche siriane) composto da una variegata alleanza fra curdi e diverse tribù locali, che sono state i migliori alleati militari sul campo per un Occidente restio a intervenire.

In più, i curdi siriani, veri artefici della sconfitta di Isis in Siria, sono un’oasi di laicità, che ha rappresentato una positiva anomalia in una regione fino a ieri dominata dal Califfato oscurantista di Abu Bakr al-Baghdadi.

Non passano neanche 72 ore dall’annuncio della nuova strategia Usa e la Turchia, lancia l’operazione militare «Ramo d’Ulivo» con l’obiettivo di liberare il cantone di Afrin dalla presenza curda. Afrin è l’enclave curda più orientale in Siria a Nord della città di Aleppo, abitata da oltre duecentomila curdi e decine di migliaia di rifugiati provenienti dalla Siria. Come tutto il resto del Kurdistan siriano, il cantone è governato dalle forze politiche curde e protetto da unità che la Turchia considera gruppi terroristici, contigui al Pkk.

L’offensiva turca è stata realizzata con la «luce verde» di Mosca che manteneva anche un piccolo contingente ad Afrin, prontamente ritirato verso Sud. Ora per l’Occidente si pone più di un problema. I curdi siriani che hanno sconfitto Isis con il sostegno politico e militare dell’America e dell’Occidente vengono attaccati dal secondo esercito della Nato, che vuole espugnare l’enclave di Afrin, e sta estendendo in queste ore la propria azione militare anche in direzione della città di Manbji.

Il premier turco Binali Yildirim ha giustificato l’intervento attaccando persino gli Usa definendoli «nostri presunti alleati» che sostengono le «organizzazioni terroristiche curde». Per Mosca si profila una nuova opportunità: stringere una solida alleanza con la Turchia di Erdogan, e con l’Iran di Rohani in chiave anti-occidentale.
Per l’Occidente è un campanello di allarme che ricorda come non sia più procrastinabile un chiarimento con la Turchia.

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