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La Stampa Rassegna Stampa
21.01.2018 Kuwait,Filippini schiavi, Kurdi,Erdogan, Mosca... sempre più informati gli 'esteri' della Stampa
2 servizi di Giordano Stabile

Testata: La Stampa
Data: 21 gennaio 2018
Pagina: 11
Autore: Giordano Stabile
Titolo: «Filippini ridotti in schiavitù 'Stop agli espatri in Kuwait-Raid aerei e artiglieria contro i kurdi, Erdogan sfida gli americani in Siria»

Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 21/01/2018, a pag. 11/12 due servizi di Giordano Stabile nella sezione 'Esteri'.

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Il quotidiano diretto da Maurizio Molinari si riconferma il più attento alla politica internazionale, pubblicando cronache e analisi che non si esagera a definire coraggiose rispetto ai nostri media, più portati ad imitare il conformismo di chi si ispira alla bieca demagogia (dis)informativa del Monde Diplomatique, da sempre una specia di vangelo ad uso dei giornalisti provinciali.
In particolare il pezzo sui filippini 'schiavi' nel Kuwait, la cui condizione è simile ad altri loro connazionali trattenuti a forza - leggasi schiavi- nel Qatar, altro Stato che meriterebbe di essere raccontato.

Ecco i due servizi di Giordano Stabile:

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"Filippini ridotti in schiavitù 'Stop agli espatri in Kuwait"

L’ultimo caso, una domestica che si è buttata giù dal terrazzo della casa dove lavorava a Kuwait City, ha spazzato via quel poco di diplomazia che caratterizza il presidente filippino Rodrigo Duterte. «Abbiamo perso quattro donne in pochi giorni, adesso basta, chiamateli e ditegli che non è più accettabile». Non era una decisione facile, perché i lavoratori all’estero rappresentano per le Filippine una delle maggiori risorse, e fonti di valuta pregiata, ma il ministro del Lavoro Silvestre Belo ha avvertito il governo del Kuwait e bloccato gli espatri, finché non saranno risolti «i casi che riguardano la morte delle nostre lavoratrici». I filippini in Kuwait sono 250 mila, su una popolazione di 4,2 milioni. Sono soprattutto domestici, donne. I suicidi nelle ultime settimane hanno portato alla luce una condizione durissima, al limite della schiavitù. Le domestiche sono ingaggiate, in Kuwait come in gran parte dei Paesi arabi, con il sistema della «kafala». Il datore di lavoro paga una cauzione, che può arrivare a quattromila dollari, come garanzia in caso di rimpatrio forzato. In cambio ottiene un potere quasi assoluto: sequestra il passaporto e impone ritmi massacranti, «fino a 20 ore al giorno», hanno documentato ong indipendenti come Kafa. Nelle situazioni peggiori si arriva alle violenze, anche sessuali. E le donne più fragili, umiliate, di fatto prigioniere in un Paese straniero, arrivano a suicidarsi. Nel marzo scorso aveva fatto scandalo un filmato postato su Facebook dalla padrona di casa: mostrava la sua cameriera etiope, aggrappata alla ringhiera del balcone dopo aver tentato di buttarsi giù. Nel video si sente la padrona che le grida «pazza, che hai fatto» mentre continua a filmare senza soccorrerla, finché la donna perde la presa e cade dal settimo piano. Incredibilmente, si è salvata. Il video ha aperto un dibattito in tutto il mondo arabo, c’è stato un processo, ma nella sostanza nulla è cambiato. Anzi, le condizioni continuano a peggiorare perché a causa della crisi economica indotta dal calo del prezzo del petrolio, decine di migliaia di domestiche sono state licenziate. Il viceministro degli Esteri kuwaitiano Khaled al-Jarallah si è mostrato «sorpreso e dispiaciuto» per le parole del presidente filippino e ha promesso che ci sarà un’ «inchiesta giudiziaria». Ma il clima è sempre più ostile. Due deputati, Khalil Abdullah e Abdullah Al-Tamimi, hanno presentato un progetto di legge per «ridurre la popolazione degli espatriati di 1,4 milioni» entro il 2020. Il fatto che oggi gli stranieri rappresentino oltre i due terzi della popolazione «è pericoloso per la sicurezza dello Stato», hanno spiegato. Il rapporto anomalo fra stranieri e cittadini locali spiega la durezza delle politiche sull’immigrazione nel Golfo. La percentuale di stranieri oscilla fra il 32% in Arabia Saudita all’89 negli Emirati. Gli immigrati non hanno nessuna chance di ottenere la cittadinanza. Sono tutti «temporanei», con diritti minimi. Di integrazione non se ne parla neanche. In un altro Paese arabo con forte presenza di immigrati, il Libano, non soltanto non è immaginabile lo Ius soli, ma persino lo Ius sanguinis subisce limitazioni: i figli di una donna libanese e di un uomo straniero non ottengono automaticamente la cittadinanza. Nel Golfo la chiusura si spiega con un’esplosione demografica che non ha eguali al mondo. Gli Emirati, in un secolo, sono passati da 90 mila abitanti a 9,6 milioni. I locali sono meno di un milione, mentre gli immigrati filippini sono arrivati a 680 mila, per poi calare dopo una serie di campagne contro l’immigrazione irregolare. Fra il 2007 e il 2008 trecentomila lavoratori asiatici, compresi ventimila filippini, sono stati costretti a lasciare il Paese per le nuove regole sui visti, e oltre mille sono finiti alla deriva nel Golfo, spiaggiati sull’isola iraniana di Kish e in quella omanita di Al-Buraimi. Gli «infiltrati» rischiavano fino a dieci anni di galera, ma la maggior parte non aveva i soldi per pagarsi il viaggio di ritorno. Norme simili sono state approvate anche in Oman, Bahrein, Arabia Saudita e Qatar, accanto a piccole aperture. In Qatar, nel 2008 l’ex emiro Hamad bin Khalifa al-Thani, ha permesso l’apertura di chiese, una con un sacerdote filippino. Aperture simili sono state promesse dal principe ereditario saudita Mohammed bin Salman. Ma sono gocce nel mare. Sulle spalle dei 10,8 milioni di migranti filippini nel mondo c’è gran parte della sopravvivenza delle loro famiglie e della madrepatria, che non possono fare a meno dei 5 miliardi di dollari di rimesse all’anno.

Raid aerei e artiglieria contro i kurdi, Erdogan sfida gli americani in Siria

Il nome non è dei più felici, «Ramo d’olivo», ma forse riassume le contraddizioni dell’operazione lanciata ieri dalla Turchia contro i guerriglieri curdi dello Ypg in Siria. Un’offensiva annunciata da settimane dal presidente Recep Tayyip Erdogan, con toni sempre più duri e obiettivi sempre più vasti, ma che si scontra con una realtà intricata persino per gli standard mediorientali. I curdi sono i migliori alleati degli americani. Dopo la sconfitta dell’Isis a Raqqa, Washington vuole usarli per contenere l’influenza iraniana e Bashar al-Assad. Ma i curdi hanno anche buoni rapporti con i russi, e persino con Damasco in alcune zone, per esempio ad Aleppo. Per i turchi invece lo Ypg rappresenta «l’ala siriana» del Pkk, quindi un’organizzazione terroristica da «distruggere», a costo di mettersi contro le maggiori potenze. Ieri, dopo i bombardamenti con l’artiglieria, sono entrati in azione i cacciabombardieri F-16 che hanno colpito «un centinaio di obiettivi dello Ypg» ad Afrin. È questo il punto debole dello schieramento curdo. Afrin è separato dagli altri due cantoni che formano il Kurdistan siriano, Kobane e Jazeera. Con una superficie di 1800 kmq e 180 mila abitanti, è circondato da due lati dalla frontiera turca e dagli altri due da territori controllati dai ribelli arabi alleati di Ankara. E ieri sono state le formazioni arabe a muoversi a terra verso Afrin dalla città di Azaz, dove venerdì sera avevano sfilato 4 mila miliziani. Sempre venerdì il capo di stato maggiore turco, generale Hulusi Akar, era volato a Mosca per un vertice con il collega russo Valery Gerasimov. I russi sono presenti ad Afrin con un contingente di un centinaio di uomini, spostati lì a garanzia dei curdi. Non solo. I sistemi anti-aerei S300 e S400 piazzati a Tartus e Lattakia coprono tutto lo spazio aereo siriano e «ingaggiano» in automatico gli aerei della Nato. Ankara aveva bisogno del via libero russo e lo ha avuto. Ieri sera Mosca ha annunciato di aver ritirato «le truppe dispiegate nella zona di Afrin». La copertura russa non c’è più, nonostante le proteste di Damasco che giovedì aveva minacciato di «abbattere» i jet turchi in caso di «violazioni» e ieri ha negato di essere stata «informata» da Ankara sull’operazione. I raid sono stati confermati da un portavoce dello Ypg, Rojghat Roj, che ha denunciato anche le prime «vittime civili», per ora soltanto feriti, e minimizzato l’azione di terra, «schermaglie». Altre fonti curde dicono che «quattro soldati turchi» sono stati uccisi al confine. Migliaia di uomini delle forze armate di Ankara, con centinaia di mezzi corazzati, compresi carri M60 e Leopard, attendono l’ordine d’attacco. Ieri Erdogan ha detto che l’obiettivo è sconfiggere i «terroristi ad Afrin, Manbij, fino al confine iracheno», cioè spazzare via lo Ypg da tutto il Kurdistan siriano. Anche Mosca ha bisogno di Ankara per arrivare alla fine della guerra in Siria. Però ha dato il via libera soltanto nel cantone di Afrin. L’altro alleato, l’Iran, ha parlato invece di «conseguenze negative» con il viceministro degli Esteri Hossein Jaberi Ansari. A Sochi, il 30 gennaio, i tre si preparano ad annunciare la loro «soluzione politica», subito dopo la nuova tornata dei colloqui di pace a Vienna fra il 26 e il 28. Mosca deve far quadrare ora un cerchio incandescente. Gli americani stanno a guardare: hanno tracciato la loro linea rossa lungo l’Eufrate, né russi né turchi possono operare a Est del fiume, dove ci sono anche 2 mila militari Usa. Ma a questo punto neanche i curdi di Kobane sono più molto tranquilli.

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