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La Stampa Rassegna Stampa
29.12.2017 Hotel Lutetia, dalla Belle Epoque al nazismo nel romanzo di Pierre Assouline
Commento recensione di Mario Baudino

Testata: La Stampa
Data: 29 dicembre 2017
Pagina: 26
Autore: Mario Baudino
Titolo: «Al Lutetia c'è sempre una stanza per la storia»

Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 29/12/2017, a pag.26, con il titolo "Al Lutetia c'è sempre una stanza per la storia" il commento recensione di Mario Baudino al libro di Pierre Assouline "Hotel Lutetia"

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Mario Baudino

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Pierre Assouline

È il solo grand hotel della rive gauche, un capolavoro liberty nel quartiere latino. Ha festeggiato da un po’ i cent’anni, perché nacque nel 1910, ad opera di una certa Madame Boucicaut, per i clienti del suo grande magazzino – una novità per l’epoca – provenienti dalla provincia: nobili e borghesi agiati, va da sé, nonostante il nome piuttosto ossimorico con cui era stato battezzato l’emporio: Bon Marché. Ora il Lutetia sta per riaprire, dopo un passaggio di proprietà e una chiusura di qualche anno dovuta a un lungo restauro, che ha permesso di riscoprire anche gli affreschi originali nella sale comuni e ricostruire in un nuovo contesto questo monumento a un’idea di lusso tutta novecentesca. Per le sue sale passarono scrittori e artisti, da Roger Martin du Gard, premio Nobel nel 1937, a Matisse, André Gide, Antoine de Saint Exupéry, Picasso, Joséphine Baker, James Joyce con Samuel Beckett e tutta la famiglia, proprio alla vigilia dell’invasione tedesca – e della sua morte. Il generale De Gaulle aveva lì la sua stanza durante la prima fase delle operazioni belliche, e alla mattina andava in auto al fronte. L’Hotel Lutetia fu a lungo il solo grande albergo della città dove non alloggiavano solo stranieri ma anche parigini, per una sorta di vacanza sulla porta di casa. E, curiosamente, era di fronte a una prigione. Pierre Assouline, che a questo luogo tipico dell’immaginario francese ha dedicato un corposo romanzo storico (Lutetia il titolo, ora tradotto come Hotel Lutetia da Portaparole), ci ricorda che i tedeschi arrivarono a Parigi, macabra ironia della sorte, il 14 giugno del 1940, e il giorno seguente requisirono l’hotel. Quando il 16 vi insediarono l’Abwehr, il servizio segreto militare, era Bloomsday, il giorno festeggiato da tutti i joyciani del mondo perché è quello in cui svolge, ambientata nel 1904, l’avventura in giro per Dublino dei personaggi dell’Ulisse. 1904 e 1940, due date a specchio. Va aggiunto che gli invasori non trovarono i grandi vini, almeno i più pregiati e antichi, che rappresentavano uno dei blasoni dell’albergo: perché nei mesi precedenti, quando si capì che le cose si stavano mettendo male, il capo sommelier fece scavare un tunnel dietro le cantine, vi nascose il tesoro e lo murò accuratamente. I tedeschi non lo scoprirono, venne riaperto solo nel ’45, o quando il Lutetia era già diventato qualcosa di diverso e forse unico al mondo: il punto di raccolta dei reduci dei campi di prigionia e di sterminio. Assouline, che è un prolifico scrittore, un grande biografo ma anche un esperto di fascismo e nazismo (è di pochi giorni fa la notizia che sarà lui a curare la contestata edizione degli scritti antisemiti di Celine, annunciata da Gallimard, e per la quale il ministero dell’Istruzione ha invitato esplicitamente l’editore al massimo scrupolo e alla massima cautela) ha trovato documenti inediti o dimenticati e ricostruito il quadro della vicenda. Per raccontarlo ha preferito la forma del romanzo, dove un personaggio d’invenzione narra le vicende dell’hotel da un punto di vista privilegiato: quello del capo della sicurezza. Ma i tre quarti almeno – come ha spiegato l’autore – di quel che c’è scritto sono fatti storicamente avvenuti. James Joyce era effettivamente là, alla vigilia del crollo del Francia e così tutti i suoi illustri colleghi. Vivere in hotel, nonostante la Belle Epoque fosse finita da un pezzo, era un lusso che chi poteva, anche fra gli artisti, si concedeva volentieri. In Il museo delle cere (Adelphi), pubblicato per la prima volta nel 1930, Joseph Roth arrivava a definirsi un «Hotelbürger», un cittadino degli hotel, e meglio ancora un «Hotelpatriot», e nel ’38 George Simenon, con La fioraia di Deauville (un racconto appartenente alla serie della «Agenzia O», anch’esso appena uscito per Adelphi) faceva risuonare un Grand Hotel normanno di tutti i possibili e misteriosi destini incrociati, tra il frusciare dei portieri, il riserbo, l’eleganza estrema, i segreti, le vite spezzate, la violenza felpata. Il Grand Hotel è stato per molti decenni uno dei luoghi d’elezione del romanzesco. Il Lutetia, per vari motivi, lo ha incarnato più di altri: non solo per gli splendori anteguerra – dove non mancano almeno nella ricostruzione di Assouline gli agenti segreti, le false identità, gli inganni e gli amori - ma per i cupi anni dell’occupazione, tra ufficiali tedeschi francofili e francofoni e non per questo meno implacabili, le reti di resistenza, la cucina sempre perfetta. Molti furono gli hotel parigini che subirono questa sorte. Dove il romanzo dà luogo al documento storico è dal ’44 in poi, quando la Wehrmacht se ne va e il Lutetia diventa un caso unico nell’Europa devastata dalla guerra. Arrivano nuovi ospiti, i più imprevedibili per un Grand Hotel: i reduci dalla Germania, i prigionieri di guerra e quelli politici, gli ebrei sopravvissuti. È un’umanità allo stremo, che va curata ma anche, in vista della restituzione alla vita normale, identificata. Bisogna far sì che trovino o vengano trovati dai parenti, bisogna dotarli di documenti che attestino la loro identità, e stanare i collaborazionisti o i nazisti che si sono confusi con questa massa sofferente per farla franca. Il libro di Assouline ricostruisce dialoghi e interrogatori, dove si cerca una difficile via di mezzo tra la pietà e l’inquisizione, tra la ricerca della verità e la necessità di non aggravare le sofferenze di chi è sopravvissuto all’inferno, di quell’«esercito di ombre». Nel settembre del ’45 France Soir titolò così la notizia che le operazioni di rimpatrio erano concluse: «Il Lutetia non è più l’albergo dei morti viventi». Poco dopo arrivò De Gaulle ritirare i bagagli che aveva frettolosamente abbandonato qualche anno prima. Quanto alla cantina murata, non sappiamo con esattezza se fu aperta in quell’occasione, o prima o dopo. Il particolare deve essere sfuggito persino ad Assouline. Ma questi, si sa, sono segreti di Stato. È il solo grand hotel della rive gauche, un capolavoro liberty nel quartiere latino. Ha festeggiato da un po’ i cent’anni, perché nacque nel 1910, ad opera di una certa Madame Boucicaut, per i clienti del suo grande magazzino – una novità per l’epoca – provenienti dalla provincia: nobili e borghesi agiati, va da sé, nonostante il nome piuttosto ossimorico con cui era stato battezzato l’emporio: Bon Marché. Ora il Lutetia sta per riaprire, dopo un passaggio di proprietà e una chiusura di qualche anno dovuta a un lungo restauro, che ha permesso di riscoprire anche gli affreschi originali nella sale comuni e ricostruire in un nuovo contesto questo monumento a un’idea di lusso tutta novecentesca. Per le sue sale passarono scrittori e artisti, da Roger Martin du Gard, premio Nobel nel 1937, a Matisse, André Gide, Antoine de Saint Exupéry, Picasso, Joséphine Baker, James Joyce con Samuel Beckett e tutta la famiglia, proprio alla vigilia dell’invasione tedesca – e della sua morte. Il generale De Gaulle aveva lì la sua stanza durante la prima fase delle operazioni belliche, e alla mattina andava in auto al fronte. L’Hotel Lutetia fu a lungo il solo grande albergo della città dove non alloggiavano solo stranieri ma anche parigini, per una sorta di vacanza sulla porta di casa. E, curiosamente, era di fronte a una prigione. Pierre Assouline, che a questo luogo tipico dell’immaginario francese ha dedicato un corposo romanzo storico (Lutetia il titolo, ora tradotto come Hotel Lutetia da Portaparole), ci ricorda che i tedeschi arrivarono a Parigi, macabra ironia della sorte, il 14 giugno del 1940, e il giorno seguente requisirono l’hotel. Quando il 16 vi insediarono l’Abwehr, il servizio segreto militare, era Bloomsday, il giorno festeggiato da tutti i joyciani del mondo perché è quello in cui svolge, ambientata nel 1904, l’avventura in giro per Dublino dei personaggi dell’Ulisse. 1904 e 1940, due date a specchio. Va aggiunto che gli invasori non trovarono i grandi vini, almeno i più pregiati e antichi, che rappresentavano uno dei blasoni dell’albergo: perché nei mesi precedenti, quando si capì che le cose si stavano mettendo male, il capo sommelier fece scavare un tunnel dietro le cantine, vi nascose il tesoro e lo murò accuratamente. I tedeschi non lo scoprirono, venne riaperto solo nel ’45, o quando il Lutetia era già diventato qualcosa di diverso e forse unico al mondo: il punto di raccolta dei reduci dei campi di prigionia e di sterminio. Assouline, che è un prolifico scrittore, un grande biografo ma anche un esperto di fascismo e nazismo (è di pochi giorni fa la notizia che sarà lui a curare la contestata edizione degli scritti antisemiti di Celine, annunciata da Gallimard, e per la quale il ministero dell’Istruzione ha invitato esplicitamente l’editore al massimo scrupolo e alla massima cautela) ha trovato documenti inediti o dimenticati e ricostruito il quadro della vicenda. Per raccontarlo ha preferito la forma del romanzo, dove un personaggio d’invenzione narra le vicende dell’hotel da un punto di vista privilegiato: quello del capo della sicurezza. Ma i tre quarti almeno – come ha spiegato l’autore – di quel che c’è scritto sono fatti storicamente avvenuti. James Joyce era effettivamente là, alla vigilia del crollo del Francia e così tutti i suoi illustri colleghi. Vivere in hotel, nonostante la Belle Epoque fosse finita da un pezzo, era un lusso che chi poteva, anche fra gli artisti, si concedeva volentieri. In Il museo delle cere (Adelphi), pubblicato per la prima volta nel 1930, Joseph Roth arrivava a definirsi un «Hotelbürger», un cittadino degli hotel, e meglio ancora un «Hotelpatriot», e nel ’38 George Simenon, con La fioraia di Deauville (un racconto appartenente alla serie della «Agenzia O», anch’esso appena uscito per Adelphi) faceva risuonare un Grand Hotel normanno di tutti i possibili e misteriosi destini incrociati, tra il frusciare dei portieri, il riserbo, l’eleganza estrema, i segreti, le vite spezzate, la violenza felpata. Il Grand Hotel è stato per molti decenni uno dei luoghi d’elezione del romanzesco. Il Lutetia, per vari motivi, lo ha incarnato più di altri: non solo per gli splendori anteguerra – dove non mancano almeno nella ricostruzione di Assouline gli agenti segreti, le false identità, gli inganni e gli amori - ma per i cupi anni dell’occupazione, tra ufficiali tedeschi francofili e francofoni e non per questo meno implacabili, le reti di resistenza, la cucina sempre perfetta. Molti furono gli hotel parigini che subirono questa sorte. Dove il romanzo dà luogo al documento storico è dal ’44 in poi, quando la Wehrmacht se ne va e il Lutetia diventa un caso unico nell’Europa devastata dalla guerra. Arrivano nuovi ospiti, i più imprevedibili per un Grand Hotel: i reduci dalla Germania, i prigionieri di guerra e quelli politici, gli ebrei sopravvissuti. È un’umanità allo stremo, che va curata ma anche, in vista della restituzione alla vita normale, identificata. Bisogna far sì che trovino o vengano trovati dai parenti, bisogna dotarli di documenti che attestino la loro identità, e stanare i collaborazionisti o i nazisti che si sono confusi con questa massa sofferente per farla franca. Il libro di Assouline ricostruisce dialoghi e interrogatori, dove si cerca una difficile via di mezzo tra la pietà e l’inquisizione, tra la ricerca della verità e la necessità di non aggravare le sofferenze di chi è sopravvissuto all’inferno, di quell’«esercito di ombre». Nel settembre del ’45 France Soir titolò così la notizia che le operazioni di rimpatrio erano concluse: «Il Lutetia non è più l’albergo dei morti viventi». Poco dopo arrivò De Gaulle ritirare i bagagli che aveva frettolosamente abbandonato qualche anno prima. Quanto alla cantina murata, non sappiamo con esattezza se fu aperta in quell’occasione, o prima o dopo. Il particolare deve essere sfuggito persino ad Assouline. Ma questi, si sa, sono segreti di Stato.

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