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La Stampa Rassegna Stampa
14.12.2017 Paesi islamici contro Israele, ma non c'è unità. Erdogan nuovo Fürer
Commenti di Giordano Stabile, Marta Ottaviani

Testata: La Stampa
Data: 14 dicembre 2017
Pagina: 12
Autore: Giordano Stabile - Marta Ottaviani
Titolo: «I leader islamici: 'Gerusalemme Est diventi la capitale della Palestina' - La riscossa del condottiero Erdogan che guida i musulmani contro Israele»
Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 14/12/2017, a pag. 12, con il titolo "I leader islamici: 'Gerusalemme Est diventi la capitale della Palestina' ", l'analisi di Giordano Stabile; con il titolo "La riscossa del condottiero Erdogan che guida i musulmani contro Israele", il commento di Marta Ottaviani.

Ecco gli articoli:

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Una reazione a un dato di fatto che è tale dal 1948: Gerusalemme è la capitale di Israele

Giordano Stabile: "I leader islamici: 'Gerusalemme Est diventi la capitale della Palestina' "

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Giordano Stabile

Gerusalemme Est deve essere la capitale dei palestinesi. L’America di Trump non è più credibile come un mediatore. La difesa della Città Santa resta la “linea rossa” per tutti i musulmani. Al vertice di Istanbul le 57 nazioni dell’Organizzazione dei Paesi islamici si sono compattate. Ma al di là della retorica di fuoco del padrone di casa, il presidente turco Recep Tayyip Erdogan, la spaccatura fra moderati, guidati dall’Arabia Saudita, e il “fronte della resistenza” a leadership iraniana, è rimasta sotto alla superficie e, alla fine, il punto di mediazione ricalca le posizioni tradizionali di Riad e lascia la porta aperta a una trattativa con Israele.

Al vertice hanno partecipato 48 Paesi, con una ventina di capi di Stato e di governo. Tutti si sono trovati d’accordo nel dichiarare “Gerusalemme Est capitale dello Stato di Palestina”. Le nazioni islamiche hanno poi chiesto agli altri Paesi di seguirli su questa linea. A ben guardare è un proclama accettabile anche in Occidente, perché di fatto riconosce la parte occidentale della città come capitale dello Stato ebraico e quindi punta alla soluzione “due popoli, due Stati” portata avanti dagli accordi di Oslo in poi.

È il leader turco Erdogan, nel suo discorso, ad alzare i toni dello scontro. Attacca gli Stati Uniti e Israele. «Oggi abbiamo mostrato al mondo l’unità del mondo islamico – ribadisce -. La decisione di Trump getta nel caos la regione, dà forza ai fanatici e mette fine al processo di pace». Poi alza ancora il tiro: il presidente americano «ha una mentalità sionista», è del tutto sbilanciato a favore di Israele. Ha toccato «la linea rossa dei musulmani» è per questo non ha più i requisiti di mediatore.
Il presidente palestinese Abu Mazen ripete lo stesso concetto. La fine della mediazione americana, nei piani del vecchio raiss, conduce a un’azione opposta quella seguita da 25 anni. Abu Mazen, di fronte ai “fratelli islamici”, rivela che l’Autorità palestinese ha «cancellato tutti gli accordi con Israele», compreso Oslo, si rivolgerà al Consiglio di sicurezza dell’Onu e chiederà la «piena ammissione» alla Nazioni Unite: «Non ci sarà pace finché Al-Quds (Gerusalemme) non sarà riconosciuta come capitale dello Stato di Palestina». I toni di Abu Mazen rimandano alla soluzione a «uno Stato», un balzo indietro nel tempo, che piace agli oltranzisti. Non a caso è il presidente iraniano Hassan Rohani a fare eco alle sue parole: «Non si è raggiunta la pace in Medio Oriente perché i mediatori Usa non sono mai stati onesti». Rohani ha limato la sua posizione in un bilaterale a porte chiuse con Erdogan, ma resta inaccettabile per l’Arabia Saudita. A Istanbul la delegazione saudita è di secondo livello eppure sono le parole di Re Salman, da Riad, a esprimere il punto finale. «Il Regno – precisa – chiede una soluzione politica e il ripristino dei diritti legittimi dei palestinesi, incluso quello di uno Stato indipendente con capitale Gerusalemme Est».

Re Salman evita di criticare l’America. Dalla Casa Bianca arriva una prima risposta: Trump «resta impegnato» a elaborare il suo piano, «di cui beneficeranno sia il popolo israeliano che quello palestinese». Dietro le quinte, i sauditi sottolineano come Trump abbia lasciato i confini della Città Santa da «stabilirsi» e quindi c’è spazio per la soluzione “due popoli, due Stati” e il loro piano di pace, anche se modificato nei colloqui fra il principe ereditario Mohammed bin Salman e l’inviato della Casa Bianca Jared Kushner, con il sobborgo di Abu Dis destinato a diventare capitale palestinese. Ed è proprio sull’erede al trono che punta lo Stato ebraico per riaprire le trattative. Ieri il ministro israeliano dell’intelligence Yisrael Katz lo ha invitato esplicitamente in Israele, dopo la sua visita in incognito dello scorso settembre.

Marta Ottaviani: "La riscossa del condottiero Erdogan che guida i musulmani contro Israele"

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Marta Ottaviani                         Erdogan con un Corano

Recep Tayyip Erdogan con la decisione di riconoscere Gerusalemme est capitale della Palestina, corona un sogno che covava da tempo: ergersi a leader indiscusso della causa e soprattutto a condottiero del mondo islamico. Dove la Città Santa appare quasi più un mezzo per coronare un fine. Il Capo di Stato di Ankara ha sempre avuto un occhio di riguardo per questo argomento, già dai primi tempi della sua militanza in partiti spesso accusati di essere anti-sionisti.

Il primo screzio ufficiale con Israele risale a oltre dieci anni fa, al 2006, quando con l’allora premier Ehud Olmert, entrò in polemica per alcuni lavori effettuati vicino alla Spianata delle Moschee, a Gerusalemme, che, secondo lui, rischiavano di danneggiare la moschea di Al-Aqsa. L’incidente si chiuse con l’invio di una squadra di tecnici turchi a controllare il cantiere.

Fra il 2009 e il 2010, quando Erdogan ha consolidato il suo potere, la frattura con Israele si è fatta più profonda. L’operazione Piombo Fuso e l’assalto alla nave Mavi Marmara, che portava viveri sulla Striscia di Gaza ma che era finanziata da una Ong in odore di finanziamento a gruppi jihadisti, hanno allontanato i due alleati storici. Con Ankara, però, che sembrava non aspettare altro. Più o meno nello stesso periodo, infatti, le Primavere arabe hanno convinto Erdogan di poter essere non solo un grande leader per il suo Paese, ma per tutte le nazioni interessate dai movimenti di protesta. A fomentare questa ambizione, c’era anche la politica estera “neo-ottomana” o del buon vicinato, portata avanti dall’allora ministro degli Esteri di Ankara, Ahmet Davutoglu. L’eccessiva ambizione, le gestioni autonome delle crisi libica e siriana, hanno portato all’effetto contrario, con la Turchia costretta a richiamare l’ambasciatore da diversi Paesi, fra cui Israele e l’Egitto. La Mezzaluna e Gerusalemme sembravano essersi riavvicinati, quando la decisione di Trump, di riconoscere la Città Santa come capitale dello Stato ebraico, ha riacceso ambizioni mai sopite. Da quel momento è iniziato un intenso scambio diplomatico, dove Erdogan, in poche ore, ha tenuto colloqui con tutti i principali leader dell’Oic, assumendo le redini della situazione e che hanno portato all’organizzazione della riunione d’urgenza di ieri, a Istanbul, nell’antica capitale ottomana e che torna, una volta per tutte, al centro della scena politica regionale. Una specie di incoronazione per il leader turco, che, oltre a un sapore panislamico, ne ha anche uno marcatamente anti-americano. Non solo Trump non ha mai dato ad Ankara rassicurazioni sulla lotta alla minoranza turca in Siria. A New-York è in corso un processo a Reza Zarrab, un businessman turco-iraniano, che sta raccontando alla giustizia Usa come la Mezzaluna abbia eluso per anni le sanzioni contro l’Iran e come ministri molto vicini al presidente turco abbiano tratto ingenti profitti da questi traffici illegali.

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