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Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 07/12/2017, a pag. 28, con il titolo "Talmud la rivelazione permanente" la recensione di Elena Loewenthal.
Non fine a sé stesso, beninteso, bensì parte integrante di un continuo dialogare tra cielo e terra alla ricerca di quegli infiniti significati che la Bibbia contiene ma che non sono palesi. Giunto alla sua redazione finale intorno al VI secolo, il Talmud è composto da sei ordini e 63 trattati, per un totale di molte migliaia di pagine. Questo testo straordinario (di cui a dire il vero esistono due redazioni, una detta «di Gerusalemme» e una, quella canonica, che viene invece «da Babilonia» perché quello era allora il fulcro della cultura ebraica) è ben più di un dotto commento alla Legge divina, cioè alla Bibbia: è una vera e propria enciclopedia della vita, per quanto disordinata e difficilissima da esplorare, in cui il materiale si delinea - sempre disordinatamente - secondo due categorie: la halakhah, cioè l’insieme di regole, e la haggadah, cioè la narrazione. In questi giorni esce il secondo volume del monumentale progetto che prevede la prima traduzione italiana integrale di tutti i 63 trattati talmudici, avviato ormai molti anni fa e sostenuto fra gli altri dal Miur e dalla Presidenza del Consiglio (https://www.talmud.it). Si tratta del trattato Berakhot, che vede oggi la luce nella nostra lingua con la prefazione del rabbino Gianfranco Di Segni (in due tomi per i tipi della Giuntina, € 90) e che è forse il più suggestivo, il più ricco di evocazioni di tutto il Talmud. Berakhot si traduce convenzionalmente con «Benedizioni» ed è uno dei trattati contenuti nell’ordine Zeraim, cioè «sementi» (e dunque tutto ciò che è legato alla vita produttiva dell’uomo e al suo rapporto con la terra, con la materia). Ma nell’universo ebraico la benedizione è qualcosa di difficile se non impossibile traduzione, perché, scrive Di Segni, «non rende bene la ricchezza semantica e concettuale che risuona nel termine ebraico. […] È il modo più tipicamente ebraico con cui si esprime la fede in Dio Re e Creatore del mondo». L’uomo benedice Dio e Dio benedice l’uomo in una dinamica in cui attivo e passivo si scambiano, l’astratto si fa concreto e viceversa, come quando è il Signore stesso a imporre all’uomo «Benedicimi!». I primi tre capitoli del trattato si occupano della lettura dello Shema («Ascolta Israele», la professione di fede dell’ebraismo), e delle relative benedizioni; seguono parti dedicate alla preghiera «generica» e a quella che si ha da recitare «in piedi» (Amidah); poi si tratta delle benedizioni per il pasto, i cibi, i fenomeni naturali, i miracoli, la salvezza, i vestiti nuovi…, perché tutto è degno di benedizione. Ma, come scrive il più grande talmudista vivente, Rav Adin Steinsaltz, il tema centrale di queste pagine è la fede stessa attraverso un dialogo a molte voci che coinvolge lo spazio e il tempo del mondo. Forse più il tempo dello spazio, perché l’ebraismo per millenni ha abitato nel primo molto più che nella geografia reale. E allora uno dei temi centrali del trattato Berakhot è quello di capire quando pregare, quando dedicarsi allo studio: «Come faceva re David a capire quando era mezzanotte? Lui aveva un segno per sapere quando era mezzanotte. C’era un’arpa appesa sopra il letto di David, e quando giungeva la mezzanotte veniva un vento dal Nord e soffiava attraverso l’arpa, e l’arpa suonava da sola. Immediatamente David si alzava e si occupava di Torah fino al sorgere dell’alba». È proprio così che il Talmud si dipana: interrogando il testo sacro là dove esso tace, cercando ciò che in apparenza manca e che invece sta lì, negli inesauribili spazi bianchi fra le righe, là dove tutto è detto, fuori del tempo e dello spazio. Per inviare alla Stampa la propria opinione, telefonare: 011/65681, oppure cliccare sulla e-mail sottostante direttore@lastampa.it |
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