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La Stampa Rassegna Stampa
04.12.2017 Siria: sono cinque gli schieramenti opposti in un Paese che non c'è più
Cronache di Giuseppe Agliastro, Giordano Stabile

Testata: La Stampa
Data: 04 dicembre 2017
Pagina: 2
Autore: Giuseppe Agliastro
Titolo: «La fretta di Putin sulla Siria: serve subito un’exit strategy - Un Paese diviso in cinque aree dove può rinascere il terrorismo»
Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 04/12/2017, a pag.2, con il titolo "La fretta di Putin sulla Siria: serve subito un’exit strategy" la cronaca di Giuseppe Agliastro; a pag. 3, con il titolo "Un Paese diviso in cinque aree dove può rinascere il terrorismo" il commento di Giordano Stabile.

Ecco gli articoli:

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Un deposito di armi di Hezbollah

Giuseppe Agliastro: "La fretta di Putin sulla Siria: serve subito un’exit strategy"

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Giuseppe Agliastro

Vladimir Putin ha fretta di chiudere la partita siriana. Secondo fonti diplomatiche, il leader del Cremlino intende ritirare buona parte delle truppe russe in Siria prima delle presidenziali di marzo e ha chiesto al ministro degli Esteri, Sergey Lavrov, di trovare una soluzione per centrare questo obiettivo.

La soluzione politica per Mosca passa attraverso una transizione politica a Damasco ma il nodo da sciogliere è il ruolo di Bashar al Assad, considerato irremovibile dall’Iran. Per la Russia - ai cui jet il dittatore siriano deve il fatto di essere ancora in sella - è importante avere una pedina a Damasco, ma un nome vale l’altro, e Assad è sacrificabile nei negoziati per il dopoguerra che il Cremlino vuole affidare al suo Congresso del popolo siriano. L’Iran invece non vuole rinunciare al suo alleato: lo ritiene il garante dei suoi interessi in Siria e teme altrimenti la chiusura del corridoio sciita che va da Teheran al Mediterraneo e che Israele considera una minaccia diretta. Putin d’altra parte sa bene che nelle trattative Mosca svolge un ruolo sì di primaria importanza - come dimostrato dal vertice a Sochi dei presidenti di Russia, Turchia e Iran - ma deve riuscire a tenere insieme le diverse anime dell’opposizione anti-Assad. Per riuscire in questo intento, aggiungono le fonti diplomatiche, in questo momento Lavrov punta sul processo di Astana e l’intesa con Iran e Turchia ma l’altra opzione per Mosca potrebbe essere rivalutare il negoziato di Ginevra, sotto l’egida Onu, al fine di allargare il consenso internazionale, coinvolgendo anche Paesi arabi, Europa e Stati Uniti nella ricostruzione. «L’interrogativo - spiega un diplomatico al corrente delle trattative in corso - è se Lavrov, sotto pressione da parte di Putin, deciderà di tornare a Ginevra».

Trovare una soluzione politica alla crisi siriana non è dunque impresa semplice, e Putin non può far troppo affidamento su Trump, che in una recente telefonata gli avrebbe detto chiaro e tondo di non volersene interessare.

Il ritiro delle truppe dalla Siria potrebbe essere però per Putin una buona mossa elettorale. Il leader russo non si è ancora candidato alle presidenziali, ma pochi nutrono dubbi sul fatto che lo farà e si aggiudicherà un altro mandato di 6 anni. L’obiettivo di Putin però non è vincere, ma stravincere, massimizzando sia i voti a proprio favore sia l’affluenza alle urne, che alle parlamentari dello scorso anno si è fermata a un deludente 47,84%. In questo contesto, l’intervento russo in Siria è un’arma a doppio taglio. Da un lato il successo militare di Mosca è innegabile e rafforza la posizione di Putin sia a livello internazionale sia in patria. Dall’altro lato, i russi sono preoccupati dal protrarsi del conflitto. Secondo un sondaggio pubblicato un paio di mesi fa dal centro demoscopico Levada, quasi la metà dei russi (49%) pensa che il Cremlino debba mettere fine all’operazione nel paese levantino. Meno di un terzo degli intervistati (30%) è invece a favore della continuazione dell’intervento iniziato piu’ di due anni fa. Ma il dato forse piu’ allarmante per Mosca è che il 32% dei russi teme che la Siria si riveli un nuovo Afghanistan.
Putin è consapevole che un intervento senza limiti di tempo rischia di trasformarsi in un boomerang, come fu per George W. Bush il dopoguerra in Iraq. E anche per questo vuole ridurre la presenza militare russa in Siria, ritirandosi da vincitore, con un governo stabile a Damasco, l’Isis sconfitto e le basi garantite. Il Cremlino, infatti, punta a mantenere la base aerea di Hmeymim e quella navale di Tartus. E ad avere uomini armati in alcune delle zone di de-escalation concordate con Teheran e Ankara per spartirsi le sfere di influenza. Ecco perché - secondo una fonte qualificata sentita dalla testata online Rbk - per “completamento” della missione russa in Siria si intende “la fine dei raid aerei contro i terroristi”. Oltretutto, stando ad alcuni media autorevoli, in Siria sono anche presenti i mercenari russi del cosiddetto gruppo “Wagner”: sarebbero stati insigniti dal governo di medaglie (molte delle quali alla memoria), cosa che farebbe quantomeno pensare a un tacito assenso di Putin al loro intervento in Siria.

Giordano Stabile: 'Un Paese diviso in cinque aree dove può rinascere il terrorismo'

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Giordano Stabile

Un Paese frammentato, diviso in cinque regioni sempre più distanti fra di loro, una della quali possibile incubatrice di un nuovo Stato islamico, forse ancora più pericoloso di quello, moribondo, del califfo Abu Bakr al-Baghdadi. È la Siria che potrebbe uscire dal dopoguerra senza un accordo di pace condiviso e priva della copertura militare russa. Uno scenario che Mosca e Washington cercano di evitare ma che è favorito dalla rigidità dei due grandi duellanti in questi sei anni di conflitto: il campo sciita dell’Iran e quello sunnita dell’Arabia Saudita.

Ieri, 3 dicembre, potrebbe diventare la data della fine della guerra all’Isis come Stato terrorista radicato su un territorio. I guerriglieri curdi hanno annunciato la liberazione della provincia di Deir Ez-Zour a Est dell’Eufrate. Le forze speciali siriane «Tigri» hanno invece «ripulito» gli ultimi villaggi in mano agli islamisti sulla sponda occidentale del fiume. L’operazione, hanno sottolineato i curdi, è avvenuta con «l’appoggio aereo sia dei russi che degli americani». Il patto fra Vladimir Putin e Donald Trump ha retto, e neppure le proteste della Turchia sono riuscite a scardinarlo. Ne è nata una regione nel Nord-Est controllata dai curdi e sotto influenza americana.

Per coinvolgere nel riassetto i turchi, Putin ha offerto al presidente Recep Tayyip Erdogan la sua zona di influenza a Nord-Ovest: parti delle province di Aleppo e di Idlib, e forse il cantone curdo di Afrin. Sarebbe la seconda «regione». La terza, di gran lunga più importante, è la «Siria utile», sotto controllo governativo: la zona costiera e l’asse che da Aleppo tocca Hama, Homs e Damasco. Un’altra zona di influenza, la quarta, serve invece a rassicurare Israele. Mosca ha convinto il presidente Bashar al-Assad a offrire una fascia smilitarizzata profonda 40 chilometri lungo il Golan e la frontiera con la Giordania. Anche questa sarebbe sotto tutela degli Usa, che hanno una base ad Al-Tanf.

La quinta area è il vasto spazio a Est di Damasco che i siriani chiamano Al-Badiya, ma che gli analisti occidentali hanno battezzato «Sunnistan». È una terra semidesertica a popolamento beduino, con tribù molto conservatrici, che l’Isis ha utilizzato come sua base profonda. È stata riconquistata a prezzo di sacrifici enormi. Fonti siriane sottolineano come le forze speciali Tigri abbiamo avuto «400 morti e 870 feriti gravi» nella campagna fra agosto e novembre. L’Isis ha opposto una «resistenza feroce a Ovest dell’Eufrate, molto meno contro i curdi». E la strada fra Palmira e Deir ez-Zour, soprattutto nella zona di Al-Sukhna, «non è ancora sicura».
Il «Sunnistan» è ingovernabile e potrebbe fare da incubatrice a un nuovo Isis. In fondo Al-Baghdadi ha imparato dagli errori del suo predecessore Abu Musab Al-Zarqawi e ha costruito qualcosa di più letale, capace di reggere per quattro anni agli assalti di mezzo mondo. Un successore ancora più scaltro non è da escludere. Anche perché il pericolo dell’estremismo sunnita è alimentato dal muro con muro fra governo e opposizione. A Ginevra, la scorsa settimana, si è ripetuto il copione degli ultimi tre anni. I gruppi appoggiati dall’Arabia Saudita hanno posto come precondizione l’uscita di scena di Assad, la delegazione di Damasco ha sbattuto la porta.

Il regime può controllare le grandi città a Ovest perché ha stretto da decenni un’alleanza con la borghesia sunnita, laica come le minoranze cristiana e sciita. Ma senza il sostegno russo rischia di dissanguarsi nell’Est. Resta il sostegno dell’Iran. Le milizie sciite ostentano sicurezza. Fonti vicine ai comandi di Hezbollah, ribadiscono che la «guerra è vinta» e il governo è «anche riuscito a portare dalle sua parte grandi tribù sunnite, come quella degli Shaitat». Tanto che è stato programmato «il ritiro di metà dei combattenti a inizio 2018». Altri osservatori hanno notato come sempre più milizie vengano sostituite da contractors russi, provenienti da aree islamiche dell’ex Urss e inquadrati nelle compagnie Wagner e Moran. Sono forse la carta segreta di Putin per disimpegnarsi dalla Siria senza sacrificare Assad.

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