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La Stampa Rassegna Stampa
04.11.2017 L'orrore del Califfato
Reportge da Ain Issa di Giordano Stabile

Testata: La Stampa
Data: 04 novembre 2017
Pagina: 11
Autore: Giordano Stabile
Titolo: «In Siria tra le vedove dell'Isis fuggite dall'orrore del califfo ' se non sorridevi eri morta'»

Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 04/11/2017, a pag.11. con il titolo "In Siria tra le vedove dell'Isis fuggite dall'orrore del califfo ' se non sorridevi eri morta'

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Giordano Stabile            Azeri sopravvissuti al Califfato

INVIATO AD AIN ISSA (SIRIA) - Dilbar ha soltanto 18 anni, due occhi marroni chiari che si intonano al fazzoletto colorato che le incornicia il viso sottile. Viene dall'Azerbaigian, ha attraversato tutta la storia e la geografia del califfato e si ritrova ora sola, con due bambini piccoli, prigioniera in un'area speciale del campo profughi di Mn Issa. E una delle «vedove dell'Isis», donne giovanissime che hanno seguito i loro compagni jihadisti, il sogno del «Paradiso islamico in terra», e si sono ritrovate in un inferno di menzogne e violenza. Dilbar ha visto la fine del califfato, tra le macerie di Raqqa, e si è riuscita a salvare con la fuga, un mese prima della caduta dell'ex capitale dello Stato islamico che ha dato il via al collasso del regno di Abu Bakr al-Baghdadi. Ieri sono cadute le ultime due città ancora in mano agli islamisti, Deir ez-Zour in Siria e Al-Qaim in Iraq. L'Isis è in trappola: mentre le forze curde appoggiate dagli americani premono da Nord, la tenaglia delle forze di Damasco da Ovest e di quelle di Baghdad da Est si sta per congiungere ad Al-Bukamal, un piccolo centro sulla frontiera siro-irachena dove si nascondono gli irriducibili non ancora morti o in fuga nel deserto. Fra loro ci sono molti stranieri, spesso partiti verso il califfato con tutta la famiglia. Dilbar è arrivata in Siria appena quattordicenne, con il padre Mohammed e il fratello Abdullah. «Quelli hanno ucciso mio padre», esordisce con un sguardo diretto, il mento leggermente alzato, con orgoglio. «Dopo che ha visto uccidere una povera donna accusata di stregoneria è andato da loro - continua -: e gli ha detto "questo non è islam, gli eretici siete voi". L'hanno condannato a morte come kaffir, uno con la fede deviata, invece mio padre era un vero fedele». Il padre l'aveva portata in Siria per farla vivere «da musulmana». Ad Aleppo, la giovane azera sposa un combattente turco, che parlava anche un po' della sua lingua. «E morto soltanto un anno dopo - spiega - sul fronte di Hasaka», non lontano da Raqqa. Quando lo viene a sapere Dilbar già aspetta il suo primo figlio, Ibrahim, che adesso ha quasi tre anni e vive con lei nella sezione speciale del campo, assieme a tanti altri bambini del califfato. Dopo la nascita del primogenito la ragazza trova un secondo marito, un altro turco ma di etnia curda. Ma anche lui è destinato a morire sul campo, all'inizio della battaglia di Raqqa, «nella zona di Al-Mansour». Lei è in attesa del secondo figlio, una bambina, Rafiqa, che stringe a sé mentre racconta. Con l'assedio che stritola Raqqa, l'Isis mostra «il suo vero volto». E una caccia continua ai traditori, alle spie, a chi non mostra «abbastanza entusiasmo per la jihad». Ma «non era jihad». Dilmar ripete le parole del padre, gli occhi si velano di tristezza ma non di paura. «La cosa che odiavano di più erano le persone scontente, "le facce da funerale", come dicevano loro. Potevi fmire in prigione solo per quello. Quando incrociavi i combattenti, soprattutto stranieri, dovevi sforzarti di sorridere». Impossibile, quando non c'era «più cibo, neanche acqua da bere, con i bombardamenti continui che distruggevano ogni cosa: ho visto Raqqa bruciare, ma sono riuscita a scappare prima della fine». «Dicevano di volere un islam giusto e per tutti, ma volevano solo soldi, donne e potere», conferma Kaddouja Homri, tunisina di 29 anni. Kaddouja indossa il tradizionale niqab nero, è arrivata in Siria nel 2013, assieme al marito, «professore di matematica». Tutti e due nati e cresciuti a Tunisi in una società europeizzata, ma senza «ideali». Quando scoppia la «rivoluzione in Siria» l'imam che frequenta il marito, Abu Baraka, li esorta ad andare ad aiutare «i fratelli islamici». Abu Bamica si unisce subito all'Isis e tutti e due si trasferiscono ad Aleppo, dove nasce la loro figlia Baraa. E subito guerra: lo Stato islamico cerca di strappare la città agli altri gruppi ribelli, Ahrar al-Sham e Jaysh al-Khor, e Abu Baraka muore in battaglia. Kaddouja riesce a risposarsi con un altro combattente tunisino e insieme hanno tre figli: le piccole Sajada e Aysha, e il maschio Daoud, un anno appena. La vita delle mogli dei combattenti stranieri è monotona, sotto stretta sorveglianza; le vedove vengono tenute in una specie di residence chiamato «Panorama». A Raqqa non c'è nulla di quello che avevano promesso i predicatori e i reclutatori salatiti: il paradiso è solo per i capi dell'Isis, una «mafia» formata dagli sceicchi della tribù locale degli Shawir e dagli emiri stranieri, maghrebini, iracheni e del Golfo. I combattenti sono invece «carne da cannone», inviati allo sbaraglio, alla morte certa sul fronte. Restano solo le loro vedove, e i loro figli, nel sezione speciale del campo di Ain Issa.

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