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La Stampa Rassegna Stampa
09.09.2017 Norman Manea: un autoritratto
Nell'intervista di Francesca Sforza

Testata: La Stampa
Data: 09 settembre 2017
Pagina: 7
Autore: Francesca Sforza
Titolo: «Ho visto le peggiori dittature, so cosa l'uomo può fare all'uomo»

Riprendiamo dalla STAMPA-TUTTOLIBRI di oggi, 09/09/2017 a pag.VII, con il titolo " Ho visto le peggiori dittature, so cosa l'uomo può fare all'uomo " l'intervista di Francesca Sforza allo scrittore  Norman Manea.

I suoi libri  «Scrittura d'esilio», «Il rifugio magico», «Varianti di un autoritratto» , «Conversazioni in esilio» sono pubblicati dal Saggiatore.

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Norman Manea                             La copertina

Norman Manea non è ancora molto conosciuto in Italia, pur essendo uno scrittore famoso. Le risposte alle domande della giornalista sono in gran parte condivisibili, anche se si resta allibiti quando leggiamo " .. Purtroppo, al momento, le mani sul pulsante atomico sono le sue" dove le mani sono quelle di Trump.  Manea dimentica che chi ha messo le proprie mani minacciose sul pulsante è il dittatore della Corea del Nord, non il presidente americano.
E' una forma di ipnosi anti-Trump, che sta influenzando le menti di persone che, come Manea, non solo vivono a New York, ma che conoscono, per averle vissute, le differenze fra dittatura e democrazia. Quest'ultima viene sconfitta quando per cecità ideologica non riconosce più il proprio nemico e ritiene di poterlo sconfiggere con il dialogo. La storia del nazismo e i paesi democratici negli anni'30- purtroppo - è già stata dimenticata.


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Francesca Sforza

Dove possono mai arrivare un romeno ebreo classe 1936 che abita a New York e un giovane romeno tedesco-armeno che abita a Londra se iniziano a parlare di nazismo e di comunismo, di America e di Germania, di colpe e di destini? C'è da perdersi, davvero, fra le pagine di Corriere dell'Est, il volume del Saggiatore che raccoglie le conversazioni dello scrittore Norman Manea con Edward Kanterian, germanista e filosofo. Una cavalcata libera e indomita, mai ansimante, capace di svellere ostacoli con la forza di un'ironia millenaria e di attraversare questioni proibite con la naturalezza di chi sa come stanno le cose, perché c'era, e ha visto. Abbiamo raggiunto Norman Manea nella sua abitazione di New York, dove sta lavorando a un romanzo-collage sul tema dell'esilio: «E la storia di un poeta tedesco del Romanticismo, del suo personaggio e del contemporaneo NM, il nomade-misantropo...»
Da esule, e da straniero che ha fatto esperienza del totalitarismo, crede che la democrazia americana di oggi sia al riparo da tentazioni autoritarie?
«Anche l'Europa è in crisi e i segnali che vengono da Inghilterra, Francia, Ungheria e Polonia vanno tutti nella direzione di nuove forme di populismo. E difficile immaginare l'America come una nuova "Deutschland ueber alles", anche se è vero che quando la Germania cominciò ad applaudire Adolf era ancora una democrazia, con una popolazione colta e con le migliori università. Da una parte ci sono si le tendenze autoritarie di Donald Trump, dall'altra però c'è il Senato, la stampa e persino "masse" confuse (fatta eccezione per i follower convinti del Presidente), che sono riluttanti ad abbracciare la sua "visione" sconvolta e i suoi comportamenti mutevoli. La mia speranza è che il suo comportamento infantile, viziato, egocentrico, il suo modo illetterato di esprimersi, l'egoismo, l'instabilità, anche se pericolosi, possano essere una premessa per un suo fallimento.
Il punto è quanto tempo dobbiamo aspettare e quali saranno le conseguenze di questo periodo. Purtroppo, al momento, le mani sul pulsante atomico sono le sue».
Si sente più vicino all'ottimismo degli americani o al fatalismo dell'Europa dell'Est?
«Avevo già 50 anni quando lasciai la Romania, tra l'altro dopo lunghe esitazioni, e non è un'età in cui si cambia drasticamente. Certamente sono cambiato, e probabilmente sono rimasto, in sostanza, lo stesso. Sono passati quasi trent'anni da quando ero un giovane sorpreso e affascinato dall'universo umano, qui, Il, e ovunque. Ho visto ciò che l'uomo può fare all'uomo in una dittatura, sotto nazisti e comunisti, vedo ora che cosa l'uomo può fare all'uomo in una società libera. La vita resta incredibile, sia sotto il terrore, sia al riparo di pace e ricchezza».
Lei ha vissuto l'11 settembre in America. Cosa pensa degli attacchi a cui è sottoposta oggi l'Europa?
«I grandi pericoli non sono diminuiti, al contrario, sono aumentati e si stanno rapidamente evolvendo. Penso non solo alla Corea del Nord, con il suo capo grasso e autoritario, i suoi giocattoli dell'orrore, quel sorriso implacabile e quel taglio di capelli. So cosa possiamo aspettarci da qualsiasi società chiusa. Il nostro pianeta non è un paradiso, e se c'è una cosa che abbiamo capito è che l'uomo non ama il suo prossimo. La guerra in arrivo potrebbe essere la fine di molti nostri compagni e di noi stessi. Possiamo impedirla? Questa è una domanda rivolta a ciascuno di noi, ovunque. Non sono un politico, non so cosa rispondere, e non ho fiducia in quei politici che oggi dovrebbero saperlo».
Lei si è a lungo interrogato sulla colpa dei nazisti. Dove si nascondono oggi, le conseguenze di quella tragedia?
«Ciò che è accaduto a Charlottesville è una sorta di piccola "avanguardia" di ciò che sta ribollendo in molti luoghi, non solo in America, che è ancora un paese democratico. Ripetevano slogan nazisti e suppongo siano potenzialmente pronti a ripetere anche altri orrori nazisti. Non è successo in Italia, in Germania o in Giappone, ma in America, il paese che ha vinto la seconda guerra mondiale, un paese aperto, multiculturale e dinamico, pieno di esuli, immigrati, avventurieri, ex prigionieri e anime perseguitate da tutto il mondo. L'ideologia dell'odio è stata inventata dagli uomini, ma sono uomini anche quelli che vi resistono, e che non rinunciano alla speranza in un mondo migliore. Il confronto tra le due categorie è ancora forte, il pericolo aggiuntivo che vedo in America è l'enorme contrasto tra i super ricchi e i poverissimi poveri. Dovremmo guardare con fiducia alla nuova Germania, probabilmente il paese più stabile in Europa, che ha imparato bene la lezione del suo passato e isterico entusiasmo per l'odio».
Lo scrittore albanese Ismail Kadare diceva che comunismo e nazismo sono niente rispetto all'islamismo. Lei che ne pensa?
«A differenza del comunismo e del nazismo, il fanatismo religioso di oggi così come lo vediamo nei leader e nei militanti islamici, con questo grande appetito per guerra e distruzione, segnala un'attrazione pericolosa per l'Utopia, un'utopia che non sarebbe creata da sognatori e rivoluzionari frustrati, ma sarebbe promossa direttamente da Dio, che istruirebbe i suoi fedeli attraverso preghiere cinque volte al giorno. Se uno è convinto di seguire l'ordine sacro impartito dall'Onnipotente, con cui ritiene di essere in contatto continuo, e che oltretutto promette una vita felice dopo la morte, sviluppa inevitabilmente una sorta di impegno ipnotico a compiere, in suo nome, anche gli atti più deprecabili. Contrariamente all'ebraismo e al cristianesimo, l'Islam non si è ancora riformato, e il pubblico delle moschee è per lo più analfabeta, non conosce il Corano e si lascia facilmente manipolare dai suoi chierici. Ma il cambiamento necessario, troppo a lungo rimandato, dovrebbe scaturire dall'interno, non può certo venire da una risoluzione Onu».
Che responsabilità hanno gli intellettuali nella mancata comprensione del rapporto tra Islam e politica, tra Islam e religione?
«Innanzitutto, è degli intellettuali musulmani! Dovrebbero avere il coraggio di affrontare i ritardi delle loro società e dei loro leader, prendendo esempio dai famosi riformatori religiosi e secolari della loro storia. Gli intellettuali "stranieri" dovrebbero aiutarli a parlare chiaramente del grande conflitto socio-politico religioso interno all'Islam, della sua ipocrisia, della grande corruzione e dei grandi errori nei loro governi. Ad esempio ricordando il grande momento di "illuminazione" avuta anche dagli antichi pensatori islamici. Dubito che possiamo chiedere di più ai cosiddetti "intellettuali". Ci sono già molti medici musulmani, ingegneri, professori molto preparati, perché non si sente mai la loro voce?».
Nei paesi dell'Europa dell'Est la convivenza tra etnie e religioni è stata a lungo possibile. Un'esperienza ripetibile ancora oggi?
«Come disse uno scrittore sopravvissuto di Auschwitz, il polacco Tadeusz Borowski (non ebreo): "Purtroppo non abbiamo imparato a rinunciare alla speranza". Preferirei: per fortuna.

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