Riduci       Ingrandisci
Clicca qui per stampare

La Stampa Rassegna Stampa
16.04.2017 Il Califfato mette base nel Sinai: si deve aiutare l'Egitto a combatterlo
Analisi di Maurizio Molinari

Testata: La Stampa
Data: 16 aprile 2017
Pagina: 1
Autore: Maurizio Molinari
Titolo: «Il Califfo tra le rocce del Sinai»

Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 16/04/2017, a pag.1/23, con il titolo "Il Califfo tra le rocce del Sinai", l'analisi di Maurizio Molinari.

Immagine correlata

L'Egitto è la prova più evidente del fallimento della politica mediorientale di Obama. Con Trump tutto dovrebbe cambiare. Dovere dell'Europa è aiutare l'Egitto a sconfiggere il Califfato. Non si deve dmenticare che il Sinai confina con Israele e che l'Egitto ha ancora un esercito che opera secondo istruzioni di stampo sovietico, privo di armi moderne, quindi incapace di far fronte alle tecniche di guerriglia messe in atto dai terroristi.

Immagine correlata
Maurizio Molinari

Il Califfato del terrore cerca casa e potrebbe trasferirsi nel Sinai. Le sconfitte subite dallo Stato Islamico in Iraq e Siria, la battaglia in corso di Mosul e l’incombente assalto a Raqqa, obbligano Abu Bakr al-Baghdadi a cercare una nuova piattaforma territoriale per la sua Jihad globale. E per comprendere dove potrebbe andare bisogna partire da dove le sue cellule sono più attive: negli ultimi sette giorni hanno fatto strage di cristiani in due importanti chiese copte egiziane ed hanno lanciato razzi verso la città israeliana di Eilat, obbligando lo Stato ebraico a chiudere i confini. In entrambi i casi, secondo fonti militari al Cairo e Gerusalemme, la regia degli attacchi è stata localizzata nel Sinai. Si tratta della penisola desertica dove nell’ottobre 2014 il gruppo jihadista «Velayat Sinai» ha giurato fedeltà al Califfato riuscendo a rafforzarsi fino a tenere in scacco un contingente egiziano arrivato a contare 30 mila uomini, sostenuti da mezzi blindati ed elicotteri. Un recente rapporto del «Washington Institute» documenta come Isis nel Sinai è riuscito, con l’uso di armi avanzate, ad abbattere elicotteri egiziani, distruggere tank M60 ed affondare un guardiacoste davanti ad El-Arish oltre a far esplodere in volo, nell’ottobre 2015, l’aereo passeggeri russo con 224 persone a bordo. Ma ciò che più rivela la vitalità di Isis fra le rocce del Sinai è la stima del Pentagono sul fatto che disponendo di un numero di 1000-1500 jihadisti è già riuscito ad eliminare almeno 2000 soldati del Cairo. Sono tre le caratteristiche che distinguono Isis in questo angolo di Medio Oriente. Primo: i gruppi jihadisti si giovano dell’alterna protezione delle tribù beduine - soprattutto nel Nord - che hanno un antico contenzioso con il governo egiziano, rispondono solo ai propri capi, si arricchiscono grazie ai traffici illeciti e sono spesso pronte a tutto in cambio di danaro. Secondo: il bersaglio preferito delle cellule di «Velayat Sinai» sono i soldati, simbolo del governo «apostata», e i cristiani «infedeli». Terzo: le montagne dell’interno offrono facile protezione così come il Canale di Suez ed il Mar Rosso sono preziose vie per commerciare in esseri umani, droghe ed armamenti. A tutto ciò bisogna aggiungere che Isis dal Sinai ha una piattaforma da cui condurre tre conflitti simultaneamente: con gli attentati per rovesciare Al Sisi in Egitto, con lanci di razzi e incursioni contro Israele attraverso il confine del Negev ed anche via mare contro l’Arabia Saudita sul lato opposto del Mar Rosso. E’ questo scenario che spiega perché il presidente americano Donald J. Trump ha ricevuto con tutti gli onori alla Casa Bianca il collega egiziano Abdel Fattah Al Sisi, ringraziandolo per «l’impegno contro i terroristi». Dall’arrivo al potere nel 2014, Al Sisi non era mai stato ricevuto a Washington da Barack Obama e la svolta di Trump lascia intendere la volontà di recuperare il legame privilegiato con il più grande e popoloso Paese del mondo arabo. Puntando a rendere più efficace la sua campagna militare anti-Isis, finora troppo convenzionale per avere successo. Non si tratta però di un percorso facile perché Al Sisi, proprio a causa della crisi con Obama, nel frattempo è scivolato nella braccia della Russia di Vladimir Putin offrendogli basi navali, siti per l’esercitazione dei reparti speciali e spingendosi fino a sostenere il regime di Bashar Assad in nome del comune «nazionalismo arabo». Non a caso Al Sisi è stato l’unico leader sunnita a non condannare Assad per l’uso dei gas contro i civili di Idlib ed anche il leader arabo più restio a sostenere il conseguente blitz militare Usa contro la Siria. Sono tali caratteristiche a fare di Al Sisi il Raiss del Paese più in bilico del Mediterraneo: combatte i jihadisti ma non riesce a vincerli, torna a Washington ma resta legato a Putin, è finanziato da Riad ma non volta le spalle ad Assad. E in Libia sostiene il generale ribelle Khalifa Haftar con l’ambizione di creare uno stato cuscinetto anti-islamista in Cirenaica ostacolando chi - come l’Italia - punta a mantenere l’unità di quel Paese. Nel Mediterraneo segnato dalle crisi, il crocevia dei conflitti sembra essere al Cairo.

Per inviare alla Stampa la propria opinione, telefonare: 011/65681, oppure cliccare sulla a-mail sottostante


direttore@lastampa.it

Condividi sui social network:



Se ritieni questa pagina importante, mandala a tutti i tuoi amici cliccando qui