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La Stampa Rassegna Stampa
28.02.2017 Repressione e morte nel regno di Abu Mazen, ma raccontarlo non si può
Fa eccezione la Stampa, con la cronaca di Fabio Scuto

Testata: La Stampa
Data: 28 febbraio 2017
Pagina: 15
Autore: Fabio Scuto
Titolo: «Troppo sesso e corruzione, Ramallah vieta il libro giallo»

Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 28/02/2017, a pag.15, con il titolo " Troppo sesso e corruzione, Ramallah vieta il libro giallo" la cronaca di Fabio Scuto.

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 Abbad Yahaia, sequestrato, perseguitato, minacciato di morte per aver scritto un libro. Dove? nel regno del moderato Abu Mazen. Allora zitti e mosca! 

Nella stessa pagina 15, dove abbiamo duramente criticato un breve redazionale, la Stampa pubblica un pezzo di Fabio Scuto su una vicenda che in Italia è stata - fino ad oggi - totalmente censurata. Non scriviamo volutamente 'ignorata', perchè si tratta di censura. La storia del giovane scrittore è nota a chiunque segua le vicende di quanto accade nel regno di Abu Mazen. Abbad Yahaia è fuggito in Qatar per non rischiare di essere ucciso, il suo editore arrestato, tutto questo per aver scritto un romanzo che descrive il proprio paese senza l'uso degli occhiali rosa. Scuto non lo scrive, ma Abbad Yahaia ha un'altra 'colpa', quella di essere omosessuale, il che significa da quelle parti avere i giorni contati, soprattutto se la cosa diventa pubblica.
La Stampa è l'unico quotidiano ad averne scritto.
Nulla su tutti i media, l'auto-censura nei confronti della società palestinese è rigida, nulla che possa danneggiarne l'immagine può essere detto o scritto.
Fatto ancora più grave, è stata censurata da tutte le organizzazioni italiane che si occupano di diritti umani e civili, in particolare quelli che riguardano le persone Lgbt. Se di mezzo ci sono i paesi arabo-musulmani il silenzio è d'obbligo.
Dopo questo pezzo della Stampa ci auguriamo che i nostri velenterosi combattenti per l'eguaglianza dei diritti di tutti, prendano coraggio e dicano da che parte stanno.

Ecco l'articolo:

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Fabio Scuto

Un thriller scuote le strade di Ramallah. E di uno scrittore palestinese. II sociologo e giornalista Abbad Yahaia autore del romanzo è in Qatar - dov'era per una fiera libraria - e adesso ha paura di rientrare ed essere arrestato. Il tema e lo sviluppo della sua «crime story» hanno fatto arrabbiare il procuratore generale Ahmed Barak che ha ordinato l'arresto e il sequestro delle copie (500) ancora nelle librerie di Ramallah. La famiglia, qui in città, vive tappata in casa perché è stata minacciata, la pagina Facebook di Abbad è piena di insulti e promesse di una rapida e dolorosa fine. II presidente degli scrittori Murad Sudani si schiera contro di lui: linguaggio troppo esplicito, sesso, sangue. «Un romanzo che viola i valori nazionali e religiosi della società per tranquillizzare l'Occidente e vincere premi», commenta velenoso al telefono evadendo la domanda se ha letto o meno il libro. Ma c'è anche qualche ministro a cui piace e che prova a reagire, il dipartimento della Cultura dell'Olp diretto da Hanan Ashrawi ha chiesto di far cadere le accuse in nome della libertà di espressione. Il libro è introvabile in tutta la Cisgiordania - mai un ordine di sequestro è stato eseguito così rapidamente dalla polizia palestinese - ma tutti ne parlano, «Omicidio a Ramallah» ha scatenato un ampio dibattito pubblico fra i conservatori della società palestinese e la piccola minoranza liberale. Ma cosa c'è di così incompatibile con la morale da far paragonare questo thriller ai «Peccati di Peyton Palace» o ai «Versetti satanici» di Rushdie? La trama riguarda l'omicidio di una ragazza davanti a un bar dove lavorano il fidanzato e due altri giovani, le cui vite passate al setaccio da una polizia ottusa saranno devastate. Sullo sfondo dell'indagine prende luce uno spaccato inedito della società palestinese che finge di non vedere i cambiamenti che si stanno innestando. II diffondersi della malavita e di piccole gang, i delitti d'onore che ancora si commettono, la corruzione, i dubbi sulle capacità della polizia, l'inanità dei politici. Su Facebook si sfidano pro e contro il romanzo. Ghassan K. scrive: «Yahia dovrebbe essere ucciso o espulso». Hussein M. loda il divieto: «Un libro distruttivo per le giovani generazioni». Gamal O. invece scrive: «Romanzo coraggioso, contro i tabù, avrei voluto che non finisse mai». Il libro uscito in sordina un paio di mesi fa, tirato in un migliaio di copie, è il quarto romanzo del ventinovenne Abbad Yahia - dopo «Ramallah la Bionda», «Giuramento» e «Telefono pubblico» - aveva venduto fino alla scorsa settimana qualche centinaio di copie. Fadi Gulan, libraio di centro città, racconta che in due mesi ne aveva vendute solo una decina di copie. «Il giorno del divieto ne ho vendute 17 copie, un paio d'ore dopo è arrivata la sicurezza per sequestrare tutto». L'editore Fuad Meek è stato arrestato per strada «come un terrorista» dice lui, e trattenuto per 7 ore prima che il ministro della Cultura Ehab Bsaiso intervenisse. «Utilizzare il termine pubblica decenza è una forma di manipolazione e giustificazione inaccettabile - spiega senza mezzi termini la signora Hanan Ashrawi - perché non ha una definizione legale o logica. Apre le porte a una censura senza fine». E non sarebbe la prima volta, visto che basta criticare il presidente Abu Mazen sui «social» per essere fermati e interrogati, la deriva autoritaria è ancora più pronunciata negli ultimi anni con la repressione di ogni forma di dissenso. II libro di Abbad Yahia piace perché racconta una storia in cui una generazione di palestinesi si riconosce e ritrova la vita di tutti i giorni e anche se il procuratore generale Barak l'ha fatto ritirare dalle librerie non ha ancora bloccato Internet, dove il download prosegue spedito.

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direttore@lastampa.it

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