Riduci       Ingrandisci
Clicca qui per stampare

La Stampa Rassegna Stampa
11.01.2017 Le storie ritrovate degli ebrei deportati da Borgo San Dalmazzo (Cuneo)
Commento di Mario Baudino

Testata: La Stampa
Data: 11 gennaio 2017
Pagina: 22
Autore: Mario Baudino
Titolo: «Cuneo-Auschwitz, le storie ritrovate»

Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 11/01/2017, a pag. 22, con il titolo "Cuneo-Auschwitz, le storie ritrovate", il commento di Mario Baudino.

Immagine correlata
Mario Baudino

Immagine correlata
Il Memoriale della Shoah a Borgo San Dalmazzo

Immagine correlata
La copertina (Le Chateau editore)

Furono in 334 a salire sul treno della morte che da Borgo San Dalmazzo, alle porte di Cuneo, li portò nei campi di sterminio. Erano arrivati in Italia seguendo i nostri soldati che si ritiravano dalla Francia dopo l’8 settembre: un gruppo di 700 ebrei, a piedi, in condizioni difficili, una parte cospicua dei molti che si erano rifugiati nel Nizzardo e a Grenoble, zone di occupazione italiana, dove erano stati trattati umanamente e si credevano in salvo. Credevano di trovare la stessa situazione nel nostro Paese. Ma così non fu, perché intanto i tedeschi avevano preso il controllo del Cuneese.

Dei partecipanti alla marcia una buona metà riuscì a nascondersi, protetta dai valligiani, ma gli altri furono costretti a consegnarsi per una serie di motivi ovviamente complessi, dall’impossibilità di trovare rifugio alla speranza che il campo «italiano» allestito in una caserma alle porte del paese, dove furono rinchiusi, potesse rappresentare comunque una garanzia di sopravvivenza. Si sbagliavano. Da quel campo di transito partirono molto presto i treni per Auschwitz.

Dopo un lungo silenzio nel dopoguerra, l’attenzione degli storici si è riaccesa, le pubblicazioni si sono moltiplicate, il campo è stato riscoperto (ad esempio con i lavori di Alberto Cavaglion negli Anni 80), alla stazione ferroviaria di Borgo San Dalmazzo è stato innalzato un memoriale. Ma quelle vite spezzate sono rimaste per decenni un universo vuoto. Dei deportati non si sapeva quasi nulla, c’era solo una lista di nomi - tutti stranieri - spesso storpiati al momento della registrazione.

Il bambino in manicomio
Due ricercatrici legate all’Istituto Storico della Resistenza cuneese, Adriana Muncinelli e Elena Fallo, hanno ricomposto il puzzle della tragedia e della pietà con un lavoro durato anni, dando a ciascuno il suo vero nome e la sua biografia per quanto è stato possibile, incrociando i dati con gli archivi di tutto il mondo e la memoria dei pochi sopravvissuti ai Lager. Il risultato fu, qualche anno fa, un primo volume sull’argomento. Ora è uscito il secondo, (Oltre il nome, Storia degli ebrei stranieri deportati dal campo di Borgo san Dalmazzo, ed. Le Chateau di Aosta) che conclude la lunga ricerca fornendo anche un quadro storico-geografico di una lenta migrazione cominciata all’indomani del primo conflitto mondiale e finita attraverso la Francia nell’imbuto delle valli cuneesi.

È un libro di analisi storica e di storie: storie di vittime, di inganni, di generosità e di piccole astuzie, di amori e tenacia, di disperazione. Ma anche di abbandono e di oblio, come accadde a Gerard Zynger, che a sette anni si ritrovò nel manicomio di Racconigi e le cui tracce si perdono negli Anni 60. Fu il «testimone estremo» - così lo definiscono le ricercatrici - di una realtà terribile, fatta di dolore e solitudine.

I genitori, ebrei di origine russa, dalla Polonia avevano trovato riparo a Parigi e nel ’39 rimasero nella capitale francese perché il piccolo era stato colpito e traumatizzato da un bombardamento aereo. Dopo due anni di ricovero in ospedale, la fuga al Sud, le Alpi, Borgo, la cattura. Nel campo, però, Gerard ha un attacco d’epilessia; viene curato alla meglio ma subito inviato d’autorità, come accadeva allora, all’ospedale psichiatrico. E la Procura della Repubblica, chissà, forse pensando di salvarlo, emette un’ordinanza di ricovero definitivo.

Da quel momento, il bambino è solo, nonostante il primario si interessi a lui e alla sua storia, senza però ottenere mai riscontri. I genitori non possono far nulla, perché verranno deportati e troveranno la morte. E dopo il ’45 l’unica preoccupazione delle istituzioni diventa ormai chi debba pagare la retta, se i francesi o gli italiani. La querelle va avanti fino agli Anni 60, nessuno pare ricordare il motivo per cui il ragazzo è in manicomio; è diventato una mera questione burocratica, che procede fra lettere e documenti d’ogni tipo fino a quando il poveretto è trasferito all’ospedale psichiatrico di Volterra.

Il calzolaio fortunato
Da quel momento, le sue tracce si perdono definitivamente. Che ne è stato di lui? Ha trovato rifugio in qualche comunità protetta, dopo la legge Basaglia? È morto solo e ormai definitivamente pazzo? È ancora vivo? Ed è stata, la sua, una vita? Gerard ha sofferto la persecuzione, e anche l’oblio del primo dopoguerra (il tema dell’Olocausto diventa importante e condiviso, com’è noto, solo dopo il processo Eichmann, a partire dagli Anni 60), ha sofferto tutte le persecuzioni possibili, quelle programmate e quelle involontarie, dal Lager al circuito manicomiale. Un scheggia di puro dolore, senza redenzione.

Non andò così a un pugno di suoi compagni di sventura, fra tragedia e commedia, come sempre accade. Marcel Jungermann, il «calzolaio fortunato», riuscì ad esempio a sopravvivere allo sterminio ma anche a un tentativo di evasione. Cuciva stivali per i carabinieri, i quali permettevano a lui e al fratello persino di recarsi nelle ore di lavoro in una bottega di Borgo San Dalmazzo. Non fu difficile organizzare la fuga con l’aiuto del calzolaio italiano: e una notte prese per i boschi con tutta la famiglia. Vennero catturati subito: ma anche «perdonati», perché i carabinieri erano così preoccupati della reazione delle SS che preferirono tenere segreta la faccenda.

Marcel fu deportato come gli altri, ma riuscì a tornare da Auschwitz. Racconterà poi che a Parigi, volendo mostrare a un compagno la casa «dove viveva» e dove non si era neanche più affacciato, dandola per perduta, vide improvvisamente alla finestra la madre intenta stendere un panno. La felicità, per una volta, gli aveva teso il suo agguato.

Per inviare la propria opinione alla Stampa, telefonare 011/65681, oppure cliccare sulla e-mail sottostante


direttore@lastampa.it

Condividi sui social network:



Se ritieni questa pagina importante, mandala a tutti i tuoi amici cliccando qui