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La Stampa Rassegna Stampa
23.12.2016 Santo Sepolcro: Chiese cristiane in lotta da secoli, nessuna 'chiave della pace'
Commento di Fernando Gentilini

Testata: La Stampa
Data: 23 dicembre 2016
Pagina: 33
Autore: Fernando Gentilini
Titolo: «Santo Sepolcro, la chiave della pace»

Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 23/12/2016, a pag. 33, con il titolo "Santo Sepolcro, la chiave della pace", il commento di Fernando Gentilini, inviato Ue per il processo di pace in Medio Oriente.

La storia della gestione del Santo Sepolcro è tutt'altro che pacifica, e smentisce il titolo dell'articolo di Gentilini. Molte volte le sei confessioni cristiane che si dividono - e si contendono - il Santo Sepolcro - hanno scatenato risse e lotte per il controllo di qualche metro in più. Il solo fatto che le chiavi siano affidate a una famiglia arabo musulmana non è quindi garanzia di pacifica convivenza, semmai dimostra lo stato di litigiosità,  tutto il contrario di quanto affermato nella titolazione.

Ecco l'articolo:

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Fernando Gentilini

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Lotta senza quartiere tra le diverse confessioni cristiane per il predominio sul Santo Sepolcro

Il califfo Omar si preparò a conquistare Gerusalemme senza spargimenti di sangue. Indossò la tunica bianca, fece sellare un cammello, e imboccò il sentiero che dal Monte degli Ulivi scende in città. I bizantini, stremati dal lungo assedio, seguivano le sue mosse dall’alto dei bastioni. Gli avevano fatto sapere di essere pronti alla resa, ma non conoscevano ancora le sue condizioni. Sofronio, il patriarca, andò incontro al califfo. E dopo che questi promise di rispettare i luoghi santi cristiani, gli consegnò le chiavi della città e quelle del Santo Sepolcro.

Omar visitò anzitutto la tomba di Gesù, insieme a Sofronio. Poi chiese di vedere la Roccia Sacra, dove un tempo sorgeva il Tempio degli ebrei. Poiché Sofronio disse di non conoscerne l’ubicazione, si offrì di accompagnarlo un rabbino, che quando furono giunti al centro del Monte Moria disse: «Ecco, siamo arrivati, questo è il punto che stavi cercando». Omar scavò a mani nude e riportò alla luce la Roccia. La ripulì con la propria veste e recitò una preghiera.

In quel punto, dopo alcuni anni, sarebbe sorta la Cupola della Roccia, chiamata anche Moschea di Omar. Corrispondeva all’Eden di Adamo, all’altare del sacrificio di Abramo e al Sancta Sanctorum del Tempio di Salomone. Soprattutto, era lì che Maometto aveva pregato con gli altri profeti prima di salire in cielo sul suo destriero alato. Per queste ragioni la Cupola della Roccia doveva essere un simbolo universale: in corrispondenza dell’antico Tempio di Gerusalemme, con la cupola d’oro come le chiese di Bisanzio e il deambulatorio circolare come la Grande Moschea della Mecca.

Unica comunità di credenti
L’ingresso di Omar a Gerusalemme del 638 («una delle più belle, commoventi ed esemplari pagine della storia del mondo» scrive Franco Cardini) coincise con l’inizio di un periodo relativamente tranquillo per la città. Gli ebrei furono riammessi entro le mura, i pellegrini cristiani continuarono a visitare indisturbati i luoghi santi, e soprattutto si cominciò a immaginare una ripartizione urbana in quartieri in modo che i fedeli delle tre religioni monoteiste abitassero vicino ai rispettivi santuari.

A quel tempo i musulmani non avevano ancora riti distinti da quelli dei cristiani e degli ebrei. Questi ultimi, ai loro occhi, erano Popoli del Libro, seguaci di un’altra religione rivelata. E ciò esigeva che fossero tollerati, diversamente da pagani e politeisti. Musulmani, cristiani ed ebrei condividevano profeti e Scritture. E a Gerusalemme condivisero per un certo periodo anche luoghi di culto: gli ebrei pregavano al Monte del Tempio, assieme ai musulmani; ed è plausibile che questi ultimi abbiano pregato al Santo Sepolcro prima di costruire la Cupola della Roccia.

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L'interno del Santo Sepolcro

Cristiani ed ebrei erano soggetti ad alcune limitazioni: c’era da versare la jizya, la tassa di protezione; e c’erano restrizioni che da contingenti sarebbero col tempo diventate divieti veri e propri: come fare proselitismo, pregare in pubblico o vendere bevande fermentate. Tuttavia quelli erano ancora anni in cui si credeva che il Corano fosse il completamento della Bibbia e dei Vangeli, in cui i califfi ordinavano agli emiri di rispettare le tradizioni nelle province sottomesse, in cui esisteva una sorta di «pluralismo monoteista» in base al quale i seguaci delle tre religioni sorelle potevano considerarsi un’unica comunità di credenti.

Ci riporta a quei giorni la storia delle chiavi del Santo Sepolcro, che il filosofo palestinese Sari Nusseibeh racconta nella sua autobiografia come fosse una fiaba (Once Upon a country: a Palestinian Life, Farrar, Straus and Giroux, 2007). Fu al suo avo Ubadah ibn al-Samit che Omar affidò in custodia le chiavi dopo averle ricevute da Sofronio. E dopo tredici secoli di dominazioni arabe, crociate, mamelucche, ottomane, inglesi, giordane e via discorrendo, è ancora un membro della famiglia prescelta dal califfo ad aprire e chiudere il portone della basilica più santa dei cristiani.

Si chiama Wajeeh Nuseibeh. Ed è un signore simpatico, con gli occhi vispi e i baffi grigi. Mi aspetta all’entrata della basilica, una domenica mattina, e la prima cosa che dice, porgendomi il biglietto da visita («Custodian and Door-Keeper of the Church of the Holy Sepulchre»), è che lui solo può usare la chiave, anche se a custodirla è un’altra famiglia musulmana, quella dei Judeh, perché così fu stabilito dal sultano 400 anni fa.

La verità a metà strada
Ogni mattina, alle quattro in punto, Wajeeh appoggia al portone la scala a pioli, ci sale, infila la chiave nel lucchetto e apre il catenaccio. E ogni sera, alle sette, compie l’operazione inversa. In entrambi i casi lo aiuta dall’interno il sagrestano di una delle comunità che ufficiano al Santo Sepolcro, l’ortodosso, l’armeno o il latino, secondo turni prestabiliti e un cerimoniale dove nulla è lasciato al caso.

In effetti i cristiani passano la notte chiusi dentro, senza poter uscire: meditando, pregando, dicendo messa, e soprattutto vigilando sul rispetto delle regole di questo complicatissimo condominio. Le ha stabilite un firmano ottomano del 1852, detto dello status quo, con il quale furono definiti una volta per tutte spazi, percorsi, orari e durata delle funzioni per ciascuna confessione (alle tre citate vanno aggiunti copti egiziani, siriaci orientali ed etiopici).

Non è un mistero che la loro convivenza sia burrascosa, e che talvolta abbia prodotto episodi di violenza che con la religione c’entrano poco (basta cercare su YouTube per rendersene conto). Ma è anche questo a rendere straordinario tutto ciò che gira intorno alla custodia della chiave del Santo Sepolcro: testimonianza di un’epoca antichissima in cui tra fedi sorelle ci si rispettava e si scendeva a patti.

Bernard Lewis dice che quando si parla di islam bisogna diffidare di due opposti cliché: quello di un’epoca d’oro della tolleranza, in cui musulmani e non musulmani avrebbero convissuto in piena armonia; e quello di una fede sempre bigotta e persecutoria nei confronti dei non musulmani, senza eccezioni di tempo e di luogo. A metà strada tra questi due estremi, aggiunge Lewis, va cercata la verità storica. E forse, cercando bene, salterebbe fuori anche una parte della storia che abbiamo appena raccontato.

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