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La Stampa Rassegna Stampa
18.12.2016 Domenico Quirico e la sua guida Alassan che voleva venderlo ai terroristi
Reportage da Agadez, Niger

Testata: La Stampa
Data: 18 dicembre 2016
Pagina: 12
Autore: Domenico Quirico
Titolo: «Nel deserto che alleva i jihadisti, tra cercatori d'oro e Tuareg»

Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 18/12/2016, a  pag.12/13, con il titolo " Nel deserto che alleva i jihadisti, tra cercatori d'oro e Tuareg", il racconto di Domenico Quirico, con l'incubo di essere venduto dalla sua guida ai terroristi.

Introduzione:

Un tempo porta del deserto per migliaia di pellegrini diretti a La Mecca, Agadez è la seconda città del Niger. Nota fino a qualche anno fa anche come tappa della Parigi-Dakar, è invece ora la «mecca» dei trafficanti di esseri umani, il principale centro di smistamento di migranti in Africa, e forse nel mondo. L’enorme flusso di disperati ha abbattuto l’economia di una città che viveva di turismo, ma allo stesso tempo ha costruito una vera economia parallela. Da Agadez partono infatti decine di pick up, ognuno con 20 migranti a bordo, per attraversare i circa 800 chilometri da percorrere fino alla frontiera libica: ogni viaggio porta nelle tasche dei trafficanti circa 4.000 euro, 200 per ogni passeggero

Domenico Quirico: "Nel deserto che alleva i jihadisti, tra cercatori d'oro e Tuareg"

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Agadez, Niger- Perdonami Alassan, ma questa volta ho paura di te. Sì: ho paura che tu mi tradisca. Ti guardo. Abbiamo viaggiato un giorno intero nel deserto verso le nostra meta, le sfrangiature granitiche dell’Hair strette tra la sterminata sabbia del Ténéré e la frontiera algerina. Le montagne dell’Hair! Nido di tutte le mafie, sentiero di Al Qaeda, delle armi, della droga, dell’oro. Aperto solo ai jihadisti, ai trafficanti, ai cercatori disperati, ai Tuareg. Chiuso agli occidentali da almeno dieci anni. Muto, veloce prepari il tuo fornello di sterpi secchi, soffi sulla brace, riempi il bollitore. Sei tranquillo, come sempre, preso nel gioco di quando sei nel deserto, la tua vita, la tua vita di Tuareg: preparare il tè, accudire il fuoristrada, cuocere il pane nella sabbia coperta di braci. Forse è colpa dell’ora se ho paura, questo vasto paesaggio nerastro eppure popolato da uomini che praticano il male, come nei mondi finiti, spopolati dal fuoco e che nessuna rugiada feconderà mai più. Quattro mesi fa, non più, mi hai portato verso la Libia con un convoglio di migranti, povere cose vive trasportate come cose già morte. Tutto è andato bene eppure c’era già nel meccanismo tra noi come uno scricchiolio, la ruggine del dubbio. Anche stavolta mi hai fatto la domanda, quella di sempre da quando ti conosco, cinque anni. «Fammi venire in Europa con te, tu puoi». Anche questa volta, dopo esserti confidato, continui tranquillo i tuoi lavori. «Alassan, vedremo, ma come faccio? Dovresti attraversare il mare e poi i visti, il lavoro. Sai cercare le tracce nel deserto, ritrovare i cammelli che hai lasciato liberi un anno fa, ma da noi?». Non mi serbi rancore per i miei rinvii, hai rivolto la supplica all’unico dio che ti può salvare, per te non sono (o non ero ?) qualcuno che ti porta ogni tanto un po’ di denaro. Sono una forza da mettere in moto come un vento favorevole che un giorno forse si librerà sul tuo destino. Come faccio a dimenticare quando mi hai raccontato degli uomini della tua tribù, una delle più povere e lontane, che, arrivati al fiume Niger per la prima volta, piansero scoprendo degli alberi verdi e forti? Da qualche parte, forse, ci sono gli uomini di Al Qaeda che controllano, questo fuoco nel buio infinito ha dato l’allarme. Eppure abbiamo scaricato il nostro poco bagaglio, abbiamo acceso la legna secca e in pieno deserto, sulla nuda scorza del pianeta, in una solitudine da primordi del mondo, abbiamo costruito il nostro villaggio di uomini. Ecco forse questa è la vera sfida contro i fanatici: non i droni e gli eserciti. Ma essere umilmente, comunemente laddove non dovresti essere, mettere un segno sul vuoto, lasciare la traccia di noi uomini di Occidente, un fuoco, il segno degli pneumatici sulla sabbia, la fila di parole di un racconto. Lo hai detto, e bene, tu stesso: neanche tutti i droni del mondo potrebbero trovarli qui, gli islamisti del deserto. E ritrovare noi, solo due mortali sparsi tra la roccia e le stelle, consci dell’unica dolcezza del respirare. Sì. Ho paura di te. Ho notato che non bevi più birra. Era l’unico vizio che ti teneva lontano dalle loro terribili virtù. Sento che ti sei convertito a questi idoli, che sono idoli carnivori. Tu che mi hai dato straordinarie lezioni di geografia. Non mi hai spiegato il deserto, me lo hai reso amico. Non mi parli di piste né villaggi o tribù. Mi hai raccontato di un cespuglio di tamarindo miracolosamente verde da secoli in una gola, su verso il monte Tamgak, e per me quei tre arbusti sono ormai un segno. Non mi hai indicato wadi secchi da millenni ma un pozzo che solo tu e pochi altri conoscete, la valle della fontana. E perduta nello spazio a trecento chilometri da Agadez, dai suoi caffè sudici dell’odore di uomini stanchi, la sabbia sempre fresca attorno a quel pozzo mi sembra di toccarla, mi avvolge con la sua smisurata frescura. Sai che ti pagherò anche questa volta. Ma non basterà, hai ragione. Nei luoghi in cui mi hai portato c’è sempre qualcuno che può pagare più di te. Io lo so bene. Quello che mi spaventa non è neppure questo. È che mi sembri diverso, come se qualcuno dotato di una forza immensa ti avesse afferrato per le spalle e adesso la creta di cui eri composto fino a ieri si è seccata, si è indurita e nessuno potrebbe ridestare dentro di te l’uomo che eri. L’ultima volta mi hai fatto strani discorsi, su dio e la giustizia. E poi questa fretta che hai di portarmi subito via da Agadez, di essere inghiottiti dalle montagne più pericolose del mondo. Come se non dovessi lasciar tracce, una volta sceso dall’aereo che mi ha portato da Niamey. Rifletto: non abbiamo telefono che funzioni, nessun legame per quanto tenue ci legherà più al mondo fino a quando non torneremo in città. Siamo fuori da tutto. Siamo usciti dalla città di nascosto perché è vietato andare sulle montagne, stiamo attraversando da un giorno la grande vallata nera delle favole. La valle della prova. Nessun soccorso qui. Se mi tradirai nessun perdono al mio errore. Di nuovo. Sono affidato alla discrezione di dio. Ma quale dio, il tuo o il mio? So che non lo faresti per denaro. Ma esistono tempeste di dio che devastano così, in un’ora, le messi di un uomo. Soprattutto in questa parte del mondo dove giardini in cui scorrono freschi ruscelli esistono solo nel corano. Perché così esso definisce il paradiso. Appena arrivato mi hai raccontato un delitto e il tuo sguardo era strano come se volessi capire se avevo paura. «Hanno rapito un americano qui vicino ad Agadez: un mese fa». «Che ci faceva un americano ad Agadez?». «Non so, era qui da anni lo conoscevano tutti. Forse gli americani lo cercano ma non dicono nulla». Forse vuoi dirmi qualcosa tu? Da quando ho iniziato a sospettare di te, il mio amico tuareg, ho capito che Al Qaeda ha già vinto. Perché ha insinuato in noi sospetto e paura. A Mosul e a Raqqa ci impegna in inutili battaglie, ci costringe a gettare stanchi ruggiti prima di ricadere nella ignavia dei vinti. È in questa impalpabile presenza la sua forza, è nel fatto che io so che è qui, che questa sabbia è cosa sua e lo sarà per sempre. La sua forza sono la sabbia e il silenzio. Qui la terra è misteriosa. Il suo spazio è come quello di Milton: si nasconde in se stesso. Per coglierla bisogna rinunciare al proposito di svelarla. Affiorano dal fondo dei territori proibiti, completano i loro traffici o i loro assalti sanguinosi e poi riaffondano nel loro mistero. E noi ci illudiamo di averne addomesticato qualcuno. Perché mi stai vestendo da Tuareg, prima di uscire di nascosto dalla città? Avvolgi bene il turbante, arte difficile che non ha mai imparato, devo mostrare solo gli occhi. È bianco, di buon cotone. E il caffetano: scuro, con complicati disegni, elegante dici tu. A me non piace, mi sembra una di quelle tovaglie plastificate che usavano da noi nelle osterie. Non mi piace travestirmi, Alassan! Significa mentire, è faticoso mentire, deforma la tua percezione delle cose. E adesso mi porti allo stadio: che buffa parola per questa distesa di sabbia e polvere e immondizia. A vedere 1500 bambini e le loro false madri, affittati per pochi soldi da famiglie poverissime perché li portino in giro a mendicare. Attendono da mesi che le Nazioni Unite facciano qualcosa per loro. Non dovevo venire qui, mi perseguiterà il loro sguardo da lazzari resuscitati ma prigionieri ancora delle oscure rive dove hanno vagato. C’è davvero la morte di dio, qualsiasi dio, nello sguardo di quei bambini. Questo è l’Hair. Avanziamo con il fuoristrada tra difficili passaggi, per tre giorni siamo come prigionieri di un dopo cataclisma di appena ieri; smottamento ancora incompiuto di pietre nere, montagne ancora crollanti, vallate che si sono appena aperte segnate dalle righe sottili di erbe secche, masse di pietre ancora in bilico minacciano rovine prossime e nuove sopra di noi. È strano in questo silenzio, in questa immobilità, vedere cose che di recente hanno dovuto far tremare il deserto e riempirlo di rumori. Tra coloro che vivono qui, jihadisti, cercatori d’oro, banditi, c’è senza dubbio come un patto ed una tregua di distruzione. Dove è l’oro? Là, nel primo girone di questo inferno di pietre, nelle vallette tra monte e monte, piene di gramigna e di serpenti velenosi. Gli uomini quaggiù sono piccoli, quasi invisibili. Si stagliano sulle creste. Spariscono nei cunicoli scavati fino a cento metri solo a colpi di vanga. La pietra fatta diventare scheggia per raccogliere spesso solo una polvere d’oro su un dito, sottile come una ala di farfalla. I loro scavi li segnano primitivi treppiede che reggono la corda per scendere e far salire il materiale, anche il verricello è fatto a mano, di legno, di artigianale bellezza. Ora qualcuno si aiuta con cartucce di dinamite o usa le mine antiuomo, ma sono inesperti e spesso una esplosione tardiva o il crollo della parete appena incisa dalla mina li seppellisce o li squarcia. Ci fermiamo, io mi tengo di lato coprendomi il volto con il turbante. Non devo parlare. Mai. Spuntano dalla terra pattuglie mute di giganti stanchi, patinati di polvere, coperti di stracci. Crani rapati, nel passo la solennità della stanchezza. Ci sono nigeriani, ghanesi, maliani, algerini. La febbre di diventare ricchi. Diffidenza degli occhi, sguardo che sorveglia. I Tuareg li assalgono per portar via l’oro e i rari, preziosi apparecchi cinesi rilevatori di metallo. Questa gente vive qui mesi in un paesaggio che i loro pozzi mettono come in disuso. Attorno per lunghezze infinite qualche albero pesto grigio come se fosse avvolto di cenere. Eppure ti sembra meraviglioso come un fiore in un vecchio vaso. Due uomini si avvicinano esitanti, un vecchio e un ragazzo. Il ragazzo quasi si inginocchia davanti a me, allunga le mani in un gesto di resa e di preghiera: l’antica paura dei neri di fronte all’abito del Tuareg, il guerriero, il razziatore dei deserti. Il pozzo non è loro, un ricco di Agadez li paga per scavare e prenderà poi l’oro. Il vecchio ha lasciato al villaggio la moglie e sei figli. Per mesi non li vedrà. Prima di ogni parola respira profondo. Le frasi sono un timido fosco balbettio. Non sa sorridere. Non ha mai sorriso. «Puoi trovare se hai fortuna anche dieci chili d’oro. È successo. Non è una favola. Se avessi il rilevatore di metalli, potrei cercare da solo e l’oro lo troverei. Ma costa seicentomila franchi Cfa (800 euro), una fortuna. Conoscevo sei cercatori algerini, hanno trovato qualche pepita, hanno riattraversato la frontiera. I soldati li hanno presi, gente del Nord, pazzi furiosi. Credete di esser uomini? Li hanno evirati e poi li hanno lasciati andare. Sono arrivati fino a un villaggio, prima di morire dissanguati». Dirupi cadono verticali sugli abissi più si avanza verso i duemila metri, le pieghe del panneggio della montagna su cui arranca il fuoristrada diventano più erte, non vi è evasione possibile. È il terzo giorno, il fuoristrada come sempre per la sosta nascosto dietro un’ansa della roccia o una macchia più fitta. Il secondo girone. Dalla pista arrivano i rumori di motore, Alassan, stranamente, non si inquieta. Due pick up nuovi ma coperti dalla polvere di un lungo viaggio si fermano, come per una intesa. Saltano a terra sei ragazzi vestiti di scuro, le facce coperte dai turbanti. Solo il capo ha il volto scoperto. Strani occhi blu cenere, bellissimi, ma in terribile contrasto con un volto da assassino. Mi guarda. Si siede con Alassan su una stuoia, cominciano a parlare fitto in tamaseg, la lingua tuareg. Gli altri che, ora mi accorgo, hanno in mano fucili, attendono come se dovesse venirne comunque una conclusione. Il capo si rialza, Alassan senza una parola comincia a impastare il pane per la sera. Io ho rivisto gli occhi di quelli che mi vogliono bene. Come allora. Interrogano. Tutta una adunata di sguardi che rimprovera il mio silenzio. Per un attimo ho pensato che avrei di nuovo dovuto imparare che nulla, in definitiva, è intollerabile. Siamo ad Agadez, vedo la matita scura e dritta del minareto di sabbia. Ti ho sospettato a torto allora. Non so. È il momento di pagare. Quanto vuoi Alassan? Dammi ciò che credi, in questi giorni la cosa più importante che ti ho dato non avrai mai soldi per pagarla. Forse ho capito Alassan. Allora è vero. Anche tu hai sentito questo terribile bisogno di rinascere, canterai gli inni di guerra e spezzerai il pane del deserto con i tuoi confratelli. Ritroverete insieme quello che cercate: il sapore dell’universale. Ma del pane che ti offriranno morirai. Che il deserto ti sia comunque lieve.

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