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Non dimenticheremo mail gli orrori del 7 ottobre (a cura di Giorgio Pavoncello) 15/01/2024


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La Stampa Rassegna Stampa
30.07.2016 La parola agli imam: 'Non capiamo da dove provenga l'orrore'. Eppure non è difficile
Cronaca di Federico Callegaro, analisi di Giordano Stabile

Testata: La Stampa
Data: 30 luglio 2016
Pagina: 6
Autore: Federico Callegaro - Giordano Stabile
Titolo: «Ma a Torino le moschee non aderiranno: 'Esprimiamo vicinanza in altri modi' - Propaganda in Europa e campi militari: la doppia strategia del Califfato»

Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 30/07/2016, a pag. 6, con il titolo "Ma a Torino le moschee non aderiranno: 'Esprimiamo vicinanza in altri modi' ", la cronaca di Federico Callegaro; a ag. 7, con il titolo "Propaganda in Europa e campi militari: la doppia strategia del Califfato", l'analisi di giordano Stabile.

Ecco gli articoli:

Federico Callegaro: "a a Torino le moschee non aderiranno: 'Esprimiamo vicinanza in altri modi' "

L’imam Abdelghani el Rahlmi afferma a proposito dell'uccisione di un prete francese al grido "Allah huAkbar": "La notizia ci ha scosso molto e non riusciamo a capire da dove possa provenire tanto orrore". Non riesce a capire, eppure non è difficile. L'orrore proviene dall'islam medesimo, declinato politicamente come ideologia che mira alla sovversione delle libertà e all'imposizione universale della sharia. Sarebbe ora che i giornalisti cominciassero a non prendere più per buone simili giustificazioni. Da dove proviene l'orrore lo spiega l'articolo di Giordano Stabile che segue a quello di Callegaro.

Ecco il pezzo:

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Nonostante i rapporti tra i musulmani residenti a Torino e la Chiesa cattolica siano particolarmente stretti e radicati, questa domenica gli imam che predicano nel capoluogo piemontese non andranno nelle chiese cristiane per assistere alle celebrazioni religiose.
L’invito a compiere un gesto di solidarietà e vicinanza tra confessioni, a pochi giorni dall’assassinio del sacerdote francese Jacques Hamel, era arrivato dalla comunità islamica francese e da quella che in Italia fa capo alla Coreis. «Quello dei fedeli francesi è un ottimo gesto e speriamo che la risposta sia molto partecipata ma al momento non abbiamo in programma di aderire - spiega Brahim Baya, presidente dell’associazione islamica delle Alpi - Sono anni che siamo impegnati nel dialogo con la Chiesa e quando succedono episodi gravi come quello francese contattiamo immediatamente i cattolici».
Non ci sono quindi motivi polemici nella mancata adesione, spiegano dalle moschee torinesi ma soltanto la volontà di declinare la vicinanza ai cristiani in altri modi. «Mi hanno chiamato subito dopo l’omicidio del parroco per esprimermi la loro solidarietà - racconta don Geppe Coha, sacerdote attivo nel quartiere Lingotto, che lo scorso anno ha organizzato una marcia della pace con partenza dalla sua chiesa e arrivo in una delle moschee più grandi di Torino - Organizzeremo nuovamente iniziative insieme ma per questa domenica non incontreremo i fedeli musulmani della zona».

Il panorama dell’islam italiano è molto frammentato e le associazioni che hanno lanciato l’iniziativa nel nostro Paese sono meno radicate a Torino. Eppure casi di imam arrivati in visita in alcune parrocchie si sono già verificati. Come nel multietnico quartiere di San Salvario, dove la chiesa di largo Saluzzo ne ha ospitato uno saudita, arrivato in città per guidare la preghiera della vicina moschea. «È venuto a trovarci dopo la fine del Ramadan e ha salutato i fedeli - racconta don Mauro Mergola, prete attivo nel quartiere - Qui, però, nessuno mi ha chiamato dopo il terribile episodio francese, cosa che mi ha molto stupito». «Non andrò a messa ma abbiamo dedicato la preghiera del venerdì a commentare quanto accaduto, anche se è possibile che qualche fedele decida di presenziare autonomamente - afferma l’imam Abdelghani el Rahlmi - La notizia ci ha scosso molto e non riusciamo a capire da dove possa provenire tanto orrore».

Giordano Stabile: "Propaganda in Europa e campi militari: la doppia strategia del Califfato"

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Giordano Stabile

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Un doppio binario che gestisce di pari passo la formazione di combattenti da infiltrare in Occidente e la propaganda per innescare i musulmani radicalizzati in Europa. Una struttura di informazione decentralizzata, che ha reclutato centinaia di giovani europei «nativi digitali» in grado di muoversi sui social media. La campagna d’estate dell’Isis contro l’Europa è gestita dal Califfato, ma da un’organizzazione sparsa sul territorio e difficile da eliminare in un solo colpo.

La struttura
La leadership dello Stato islamico è passata attraverso Al Qaeda e ha imparato dagli errori della casa madre. La Base di Osama Bin Laden era centralizzata, quella di Abu Bakr Al-Baghdadi è segmentata. Ad assistere il Califfo c’è una Shura di anziani, religiosi e comandanti militari, e un Consiglio che supervisiona i wilayat, le province e i dawanin, i ministeri. Il Califfato è composto da 35 wilayat, 19 in Siria-Iraq e 16 «remoti» dalla Nigeria all’Afghanistan, e 14 dawanin.

Il Diwan al-Ly’alam gestisce l’informazione e la propaganda. Ha due principali centri di produzione, Al-Hayat e Al-Furqan. Al-Hayat ha uffici in tutte le principali province in Siria e Iraq. Spesso agiscono all’unisono e rilasciano video o altro materiale su uno stesso tema da dozzine di posti diversi. Erano supervisionate da Abu Atheer al-Absi, capo del Consiglio dei Media, un gradino sopra il Diwan, responsabile fra l’altro del rapimento del reporter britannico Jonh Cantlie. Al-Absi è stato ucciso il 3 marzo scorso e sostituito il portavoce dell’Isis Mohammad al-Adnani. Anche lui, come del resto Al-Baghdadi, si sposta di continuo in incognito fra Siria e Iraq per «ispezionare le province».
I metodi di criptazione

Al Adnani è a capo anche del Amn al-Kharji, i Servizi esterni. Che hanno la medesima struttura sparsa. L’Amn al-Kharij gestisce sia campi di addestramento per foreign fighter che i canali di scambi di informazioni con cellule e simpatizzanti all’estero. Anche loro ricevono una formazione, a volte solo online. Nel manuale «La regole di sicurezza del musulmano», diffuso da vari media digitali dell’Isis, viene per esempio spiegato come comunicare in sicurezza, dotare il proprio computer o smartphone di sistemi con Vpn, Tor o Truecript, tutti orientati a evitare le intercettazioni. Anche l’uso di WhatsApp e Telegram sono considerati sicuri.

Il lupo «fatto in casa»
L’agilità dell’Isis nello spazio digitale è dovuta all’innesto di centinaia di giovani europei «emigrati» nel Califfato. L’Isis cerca di attirare non solo combattenti ma anche tecnici informatici e ingegneri e lancia spesso appelli in questo senso. La sinergia fra propaganda e formazione di jihadisti permette il doppio sfruttamento di ogni attacco. Se ci sono contatti fra le strutture nel Califfato e le cellule o i lupi che hanno colpito, i centri di propaganda e l’agenzia Aamaq usano il materiale ricevuto, come nel caso di Dacca o di Rouen. Altrimenti riciclano materiale dai media occidentali e mettono il timbro «soldato del Califfato».

I tempi di reazione sono rapidi. Due giorni dopo l’attacco di Ansbach, il settimanale in arabo al-Naba ha pubblicato una biografia del terrorista e rifugiato siriano Mohammad Daleel, nome di battaglia Abu Yussuf al-Karrar. Racconta come si sia unito prima ad Al-Nusra, poi abbia giurato fedeltà ad Al-Baghdadi, la sua specializzazione in ordigni incendiari, il suo ferimento e il ritorno in Europa come profugo. Gli inquirenti tedeschi stanno verificando se le informazioni sono veritiere. Ma quello che conta è il parallelismo fra propaganda e azione.

Da settimane i sostenitori dell’Isis, sui social e Telegram, martellavano i rifugiati siriani, li accusavano di «tradimento» e li incitavano a uccidere infedeli per riscattarsi. Ed ecco l’attentato condotto da un rifugiato siriano, subito amplificato sui media. Proprio per l’accoglienza dei siriani la Germania è entrata nella «prima fascia» dei Paesi da colpire.

«Mille ferite»
In una cosa però l’Isis ha copiato Al Qaeda. Ed è la teoria delle «mille ferite». Già negli Anni Novanta Al-Suri teorizzava «azioni decentralizzate», individuali o in piccole cellule, per infliggere all’Occidente «mille piccole ferite» che avrebbero piegato la sua volontà di combattere. Al-Suri sottolineava anche l’importanza del «marketing» per amplificarne l’effetto. La scommessa del Califfo è che mille piccole ferite convincano Usa e Ue a far cessare i raid.

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