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La Stampa Rassegna Stampa
23.04.2016 Tunisia: di fronte alla minaccia dello Stato islamico
Maurizio Molinari intervista il presidente, la cronaca di Francesca Sforza

Testata: La Stampa
Data: 23 aprile 2016
Pagina: 1
Autore: Maurizio Molinari-Francesca Sforza
Titolo: «L'Isis vuole la Tunisia, li sconfiggeremo con le armi e il lavoro»

Dalla STAMPA di oggi, 23/04/2016, a pag.1/2, riprendiamo due articoli, l'intervista di Maurizio Molinari al presidente tunisino Essebsi e la cronaca di Francesca Sforza.

Maurizio Molinari: " L'Isis vuole la Tunisia. Li sconfiggeremo con le armi e il lavoro "

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Il presidente tunisino Essebsi        Maurizio Molinari

«I terroristi di Isis preparano dai campi libici di Sabrata l’attacco di terra alla Tunisia, per difenderci abbiamo bisogno non solo di armi, ma anche di posti di lavoro». Dal palazzo presidenziale di Cartagine Beji Caid Essebsi guida la Tunisia nella resistenza all’offensiva dei «terroristi islamisti». Sa di essere nel mirino del Califfo, Abu Bakr al-Baghdadi, e descrive così i nemici del suo Paese e dell’intero mondo arabo: «Sono un movimento politico, non religioso, il cui unico intento è conquistare il potere». L’intervento militare russo in Siria «li ha indeboliti in Medio Oriente» e ora affluiscono «a grandi numeri» in Libia, dove contano su almeno 3000 islamisti tunisini. La ricetta di Essebsi per «respingerli e sconfiggerli» è nel consolidare l’«eccezione tunisina» ovvero un Paese-nazione costruito da Habib Bourguiba, primo presidente, «con le fondamenta democratiche e multiculturali» per «dare agli islamisti una risposta non solo militare» perché ciò che conta di più è «rafforzare i diritti delle donne, sconfiggere l’analfabetismo e la disoccupazione». Seduto nella biblioteca che fu di Bourguiba, con davanti una penna stilografica nera e un fazzoletto bianco con le sue iniziali, Essebsi parla del conflitto in atto nel mondo arabo vestendo i panni del difensore dell’«identità laica di una nazione al confine fra arabi ed europei». Mostrando lucidità e determinazione che fanno dimenticare i suoi 89 anni e spiegano perché sia lui l’artefice e protagonista dell’accordo di governo fra i laici di «Nidaa Tounes» e gli islamici di «Ennahda».
Lei è stato eletto e rappresenta l’unica nazione araba dove le rivolte iniziate nel 2011 hanno portato alla formazione di una democrazia parlamentare, basata sull’intesa fra laici e islamici. Che cosa rende la Tunisia diversa dagli altri Stati arabi?
«Le radici di una nazione che è stato Bourguiba a costruire, fondandola sul rispetto degli individui, sulla partecipazione di tutti i cittadini alle istituzioni, sulla lotta alla povertà e all’analfabetismo. La Tunisia è uno Stato-nazione arabo con radici profonde nella modernità che Bourguiba ha costruito sulla base di una società che da sempre è multiculturale, dove vivono non solo i musulmani, ma i cristiani e gli ebrei, e rispetta le donne. Se sono stato eletto, se la nuova Costituzione è stata approvata, se la democrazia tunisina può guardare avanti con fiducia è anzitutto, soprattutto, grazie alle donne».
Lei ha lavorato a fianco di Bourguiba, dopo la fine della colonizzazione francese, e ora fa riferimento a lui nell’indicare il cammino della Tunisia. Se ne considera l’erede?
«Sono un discepolo di Bourguiba, i suoi unici e veri eredi sono i giovani tunisini. Per questo in maggio andrò a un grande congresso della gioventù. Le riforme che Bourguiba firmò in favore della modernità, della formazione della gioventù, consentono oggi alla Tunisia di essere non un modello, ma un’eccezione nel mondo arabo».
Eppure in questa eccezione vi sono persistenti tensioni fra i partiti laici e quelli islamici. L’equilibrio che lei rappresenta è destinato a durare o percepisce dei rischi?
«La Tunisia racchiude più identità, laiche e religiose, abituate a convivere nel rispetto reciproco».
Qual è il tassello più importante di questo equilibrio?
«Le donne sono decisive per far avanzare, progredire, la modernizzazione della Tunisia. Sono loro che hanno vinto la battaglia della nuova Costituzione, scendendo nelle piazze esprimendo una volontà riformatrice incontenibile. Abbiamo combattuto per non introdurre la Sharia nella Costituzione e senza le donne non ce l’avremmo fatta».
E da dove vengono i maggiori pericoli per la vostra stabilità?
«Dall’islamismo che non è un movimento religioso bensì politico il cui unico intento è la conquista del potere. Si tratta di persone violente, di terroristi, che nulla hanno a che vedere con i musulmani perché l’Islam è per il rispetto di tutti, nei testi fondamentali dell’Islam non c’è nulla di quanto i terroristi predicano all’unico fine di imporre il loro potere sugli altri».
Siete stati attaccati più volte dai terroristi negli ultimi 13 mesi: al museo Bardo di Tunisi, sulla spiaggia di Sousse, più di recente nel Sud a Ben Guerdane. Quanto teme lo Stato islamico (Isis) di Abu Bakr al-Baghdadi, se ne sente minacciato?
«Isis è in Libia, a ridosso delle nostre frontiere. L’intervento militare russo in Siria e i colpi subiti da Isis anche in Iraq li hanno spinti a organizzarsi in Libia. In particolare nella regione di Sirte dove hanno sostituito i gheddafiani e controllano un’area di oltre 200 km di costa. A Sabrata, in Tripolitania, si addestrano per attaccare la Tunisia con operazioni terrestri: hanno campi, munizioni, armi e addestratori. Possono contare su un consistente numero di tunisini che si sono uniti a loro. È da Sabrata che sono partiti per attaccarci a Ben Guerdane. È stata un’incursione dentro il nostro territorio. Hanno sconfinato, volevano insediarsi in un centro urbano. Li abbiamo respinti grazie alle nostre forze di sicurezza e anche grazie agli abitanti che non li volevano, non li hanno aiutati e hanno collaborato per respingerli. Ma la risposta non può venire solo dalle armi. È importante anche il messaggio religioso: non sono musulmani né rappresentano l’Islam».
Perché Isis aggredisce, tenta di infiltrarsi, nel Sud della Tunisia?
«Perché è una delle aree dove c’è più carenza di lavoro, sviluppo. Per respingere l’assalto dei terroristi bisogna aggredire l’analfabetismo, l’emarginazione e la disoccupazione. Abbiamo il 40 per cento dei nostri laureati disoccupati, dobbiamo trovargli lavoro così come dobbiamo crearlo per chi non ha una laurea. Altrimenti i nostri giovani saranno attirati dagli stipendi da 1000 dollari al mese offerti da Isis, in contrasto con i 200 al mese che, nel migliore dei casi, si guadagnano in Tunisia».
Perché i terroristi vogliono impossessarsi della Tunisia?
«Per il semplice motivo che odiano ciò che siamo». E cosa siete? «La Tunisia è come un albero: i suoi rami si allargano in tutta Europa, le sue radici affondano nell’Africa. Senza i rami l’albero non cresce e non dà frutti, ma se non si curano le radici muore. Noi siamo mediterranei, siamo europei, ma soprattutto siamo l’Africa. Una nazione che incarna la convivenza fra identità differenti ovvero l’esatto opposto del male islamista».
In Libia vi sono almeno tre governi diversi, potrà mai tornare a essere unita?
«In Libia di governi, grandi e piccoli, ve ne sono numerosi. In contrasto fra loro. Il problema non sono i governi, ma l’assenza di Stato. Siamo stati i primi a sostenere la rivoluzione libica facendoci carico dei tanti profughi che fuggivano. Noi siamo interessati al ritorno della stabilità della Libia perché i terroristi che ci attaccano vengono da lì. Per questo sosteniamo il premier Sarraj, affinché la Libia resti unita. Abbiamo già tanti problemi con una Libia, figuriamoci quanti ne avremmo con due».
Come è avvenuto il trasferimento di Sarraj dalla Tunisia alla Libia?
«Lo abbiamo ospitato per lungo tempo e quando si è trasferito in Libia abbiamo scortato la nave su cui viaggiava fino al limite delle nostre acque territoriali, oltre le quali a garantirne la sicurezza c’erano gli italiani. Operiamo d’intesa con l’Italia. Ad accomunarci è la convinzione che per restituire stabilità alla Libia sia vitale la collaborazione fra tutti i Paesi confinanti - inclusi Algeria, Niger, Ciad e Sudan - assieme a Italia, Francia, Gran Bretagna, Germania e Stati Uniti. Sono nazioni che contano più di altre - come Qatar, Turchia ed Emirati - che sono distanti».
I Paesi europei e gli Stati Uniti valutano possibili interventi militari contro Isis in Libia. Lei cosa ne pensa?
«Sono favorevole nella misura in cui gli attacchi saranno concentrati contro obiettivi di Isis limitando i danni collaterali. Quando gli Usa hanno attaccato a Sabrata le basi di Isis purtroppo c’erano dei tunisini, ci hanno informato. Più in generale serve cooperazione, nel quadro delle Nazioni Unite».
La sua idea di modernità è agli antipodi del jihadismo di Abu Bakr al-Baghdadi, cosa pensa di lui?
«È un personaggio che crea il male e sfrutta i giovani».
L’Europa è in affanno davanti al crescente flusso di migranti, quale lettura dà di questo fenomeno che investe l’intero Mediterraneo?
«L’Italia e l’Europa sono alle prese con le conseguenze di grandi sofferenze umane, soprattutto in Africa. Molti migranti vengono da aree in guerra, dove si combattono conflitti più o meno noti. La Somalia è solo uno di questi. Più continuano le guerre, più verranno. Per loro la scelta è tra la morte e la traversata del mare. Per stroncare tale fenomeno bisogna andare all’origine: colpire i trafficanti che, con le barche, lo rendono possibile. Contro i trafficanti, come contro i terroristi, abbiamo con l’Italia interessi coincidenti: dobbiamo coordinarci in maniera sempre più stretta. Le scelte nazionali non pagano. L’Italia da sola non può risolvere il problema della migrazione, ci vuole una strategia globale, i problemi del Mediterraneo superano i nostri due Paesi, bisogna riproporre un’iniziativa mediterranea sul modello di quella che propose il presidente francese Sarkozy, forse senza troppa convinzione».

Francesca Sforza: " La deputata islamica e la blogger laica, la battaglia sotterranea in un paese diviso "

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                                                           Francesca Sforza

Un Paese di ragazze, la Tunisia: scrivono libri, raccontano storie, insegnano alle università, aprono blog, organizzano reti di attivisti, vanno in strada a manifestare, lavorano dentro e fuori casa. Un vero esercito di volontarie, che si è coalizzato durante la primavera tunisina e si è rafforzato nell’inverno del 2014, durante la discussione per l’approvazione della nuova Costituzione, quando non ha avuto paura di scendere in piazza per dire no all’inserimento della Sharia nella Carta e battersi, anche in Parlamento, per parole come «uguaglianza» (al posto della più ambigua «complementarità tra uomo e donna») e per leggi che vietassero poligamia, ripudio e eredità diseguali. E adesso? Il ruolo della religione «Vengo ogni giorno in Parlamento perché c’è ancora molto da fare», ci dice Imen Ben Mohamed, 31 anni, membro dell’Assemblea Costituente e deputata del partito islamico Ennhada, in una pausa dei lavori della Commissione Diritti, Libertà e Affari Esteri. Indossa un hijab pervinca di seta leggera, al collo porta la hamsa, amuleto portafortuna, appena un’ombra di kajal sugli occhi. «Sono stati fatti grandi passi sul fronte delle libertà di espressione e dei diritti civili, ora è il momento di dare risposte sul fronte della giustizia sociale e dell’economia, altrimenti non riusciremo a fermare la corsa dei nostri giovani nelle braccia del Califfato». Sono tanti: negli ultimi due anni sono partiti per andare a combattere in Siria, in Iraq e ora in Libia tra i 6 e i 7 mila ragazzi tunisini, e altri 15 mila sono stati messi sotto controllo per evitare viaggi verso quelle aree. «Hanno tra i 24 e i 25 anni - spiega Imen, come se quella non fosse più o meno la sua stessa generazione - il loro problema è che hanno vissuto troppo a lungo sotto la dittatura (durante il periodo di Ben Ali, il successore del presidente Bourghiba, oggi in esilio dorato a Gedda, ndr ) e questo significa rabbia, odio, ignoranza: finiscono nel jihad per denaro, per mancanza di valori, per disperazione». L’Islam non c’entra niente, secondo Imen, che con garbo respinge l’accusa, rivolta spesso al suo partito, di difendere la galassia salafita: «Ennhada è un partito islamico che si è battuto per l’inserimento del gruppo di Ansar Al Sharia nella lista delle organizzazioni terroristiche, e che nella Costituzione tunisina ha fatto mettere l’espressione “libertà di coscienza”, molto più forte e ampia di “libertà di credo”». Ci tiene a ribadire il ruolo dei sapienti religiosi nella formazione della Tunisia moderna - «non c’è stato solo Bourghiba alla base della nostra democrazia» - e quando le chiediamo se ha un sogno risponde ridendo: «Diventare presidente. Sarei la prima donna, se è un sogno lo posso fare, no?». Sotto scorta Lina Ben Mhenni scuote la testa, seduta a un tavolino del Café du Theatre nell’affollata Avenue Bourghiba di Tunisi, piercing sul naso e sul sopracciglio, unghie lunghe e laccate di nero, le dita piene di anellini: «Non è vero, Ehnnada è un partito islamico e sta lavorando a un’islamizzazione progressiva e strisciante». Docente universitaria con il contratto scaduto (non rinnovato) e blogger tra le più conosciute (244 mila follower su Twitter e quasi 95 mila persone a cui piace su Fb, anche il premier Renzi l’ha voluta incontrare quando è venuto in visita a Tunisi), Lina vive sotto scorta dopo le minacce ricevute da organizzazioni terroristiche, il suo «angelo custode» è seduto accanto a lei. «Riempiono le università di inutili dibattiti sul velo e sulla parità, ma è solo un modo per allontanare l’attenzione dai veri problemi». E quali sono i problemi veri? «Sono le persone che manifestavano mezz’ora fa davanti a noi perché chiedevano giustizia e lavoro, e sono stati mandati via dalla polizia a suon di botte, come succedeva ai tempi di Ben Ali: questa classe politica ha tradito la popolazione tunisina, e non ha abbandonato i vecchi metodi». In questo momento Lina si batte per portare i libri nelle carceri, forse perché suo padre è stato un prigioniero politico durante la dittatura: «Ho visitato diverse prigioni tunisine, l’unica cosa che i detenuti possono fare è leggere, e sa che libri ci sono nelle biblioteche? Testi religiosi, integralisti, che incitano all’odio». Ha lanciato una colletta su Facebook, le sono arrivati volumi da tutta Europa, circa diecimila tra romanzi, saggi, antologie. «Spesso un ragazzo finisce dentro per aver fumato cannabis, poi esce e dopo un po’ ci ritorna con l’accusa di terrorismo. È nel carcere che cresce la tentazione per il jihad, ed è lì che bisogna contrastarla». Secondo Lina anche il partito di maggioranza Nidaa Tounes ha le sue responsabilità: «Fanno finta di non vedere». Colte, emancipate, consapevoli, il potenziale delle ragazze tunisine va oltre la realizzazione personale: «Sono un pilastro e una garanzia di tenuta sociale, se non ce la fanno loro a distogliere i nostri giovani dalle sirene del Califfato, chi altro può farcela?», dice Fadhel Moussa, universitario, avvocato e membro dell’Assemblea Costituente. Il problema - almeno a sentire Imen, Lina e le loro compagne - è che non sembra abbiano molta voglia di sposarsi.

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